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18 Novembre 2024Pensioni, la discriminazione che colpisce le donne
di Luisa Gnecchi
La legge di bilancio ogni anno è un momento di riflessione obbligatorio, fa capire le intenzioni reali del Governo in carica.
La Lega, ma in particolare Salvini, ad ogni elezione promette “l’eliminazione della Fornero”. Nel 2013 questo era il primo punto del programma elettorale e bisogna riconoscere che era stato un messaggio premiante. Nel 2018 è stata ribadita la promessa, ma in realtà Salvini ha solo concepito Quota 100, che in realtà è stata solo una finestra in più, e prevedendo 38 anni di contributi e 62 anni di età è stata usata solo da chi aveva maturato carriere lunghe, dal pubblico impiego, pochissime le donne e i lavoratori precari e discontinui, le persone che avrebbero veramente bisogno di flessibilità pensionistica.
Se invece che inseguire facili messaggi mediatici si fossero usate tutte quelle risorse (20 miliardi di euro) per rafforzare l’APE sociale o i lavoratori precoci o pensare ad una pensione per i caregiver, per chi dedica la vita ad assistere familiari disabili o si ritrova in difficoltà sarebbe stato molto più giusto.
Siamo alla terza legge di bilancio dell’attuale Governo e possiamo registrare che già dalla prima hanno peggiorato Opzione Donna aggiungendo requisiti, simili all’Ape sociale, ma che in sostanza arrivano a ridurre drasticamente le possibili uscite.
Con l’incremento di cinque mesi nei requisiti di età per l’Ape sociale, portata quindi a 63 anni e 5 mesi, si penalizzano persone disoccupate o con invalidità superiore al 74% o chi svolge lavori gravosi. Persone che si sono ritrovate e si ritroveranno o senza reddito per 5 mesi o costrette a 5 mesi in più di lavoro.
Oltretutto chi essendo andato in pensione con Quota 100 e ha lavorato anche pochi giorni come lavoratore dipendente adesso è nei guai perché l’Inps deve recuperare tutto un anno di pensione. Viene data la colpa all’Inps, mentre era proprio nella logica di chi concependo Quota 100 sosteneva che per ogni pensionato sarebbero stati assunti due giovani e quindi era condizione obbligata impedire occupazione per ogni pensionato con Quota 100, al massimo una collaborazione occasionale e neanche una giornata da lavoro dipendente.
Purtroppo chi è rimasto vittima di questo meccanismo non si rende conto di chi sia realmente la responsabilità e pensa ad una “cattiveria” dell’Inps.
In Parlamento sono stati presentati degli emendamenti che ridurrebbero la trattenuta al solo periodo effettivo di rapporto lavorativo e vedremo quale sarà l’orientamento della maggioranza.
Partiamo dai dati: in Italia ci sono quasi 8 milioni di pensionate e 7milioni e 300mila pensionati, colpisce però la differenza di importi medi tra uomini e donne.
Sappiamo e ripetiamo spesso che esistono discriminazioni e differenziali di genere importanti ma vedere nero su bianco che la pensione media di chi ha lavorato come dipendente nel privato è per gli uomini di 1.897 euro mensili lorde e per le donne 989 dimostra in modo proprio chiaro cosa sia stata la vita delle persone.
La differenza nel pubblico impiego è più contenuta, ma comunque sempre evidentemente preoccupante, 2.554 euro medi gli uomini e 1.812 le donne, questa è la dimostrazione della difficoltà nel fare carriera, part time anche nel pubblico, ma soprattutto discriminazione nella progressione degli stipendi.
Anche nel lavoro autonomo le differenze sono enormi, 1.103 la pensione media degli uomini e 730 euro quella delle donne
La pensione è il riassunto di tutta la vita lavorativa e quindi se si lavora a part time, se ci si dedica ai figli per la mancanza di servizi, di scuole a tempo pieno, si è anche costretti a vivere con una pensione che è la metà di quelle degli uomini.
Ho sempre spiegato che il canale di pensionamento delle donne è la pensione di vecchiaia, quella che si raggiunge con 67 anni di età e 20 anni di contributi, e la pensione di anzianità, cosiddetta pensione “anticipata”, è il canale di pensionamento degli uomini, 41 anni e 10 mesi di contributi per le donne e 42 anni e 10 mesi per gli uomini + 3 mesi di finestra per attendere il primo rateo di pensione.
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L’Inps ha la possibilità di leggere i percorsi lavorativi da tanti punti di vista e nell’ultimo rapporto annuale si è indagato sulla carriera delle persone tra i 20 e i 45 anni che tra il 2013 e il 2016 sono diventati genitori, il risultato della ricerca dimostra che la nascita del primo figlio/a influisce negativamente sulle retribuzioni annue delle donne. Maggiore è il ricorso al congedo di maternità più tempo si impiega per recuperare il reddito iniziale.
Già nel rapporto del 2022 si era dimostrato che la perdita di guadagno di una donna al primo figlio dopo 5 anni dalla nascita è in media di 5.700 euro annui.
Quello che però stupisce in quest’ultima analisi è che i padri hanno addirittura un incremento di reddito, significativo, addirittura circa un 50% in più a 7 anni dalla nascita.
Possono esserci tanti motivi, nel momento in cui si crea una famiglia si cerca anche di avere un reddito che permetta di far fronte alle nuove esigenze, ma quello che si è anche capito è che un uomo che diventa padre per l’azienda assume un’affidabilità maggiore, è più responsabile e viene “premiato”, quindi mentre le donne sono penalizzate da una maternità i padri vengono valorizzati.
I padri hanno diritto a 10 giorni di congedo obbligatorio per una nascita da utilizzare nei primi 5 mesi di vita, ma questi giorni di congedo non vengono utilizzati da tutti i padri: perché non ne usufruiscono? Perché non lo sanno? Perché non vogliono rischiare di subire la stessa sorte delle madri? Si tratta ancora di un problema culturale.
Già la legge 125 del 1991, “azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro” all‘articolo 1, punto e) prevedeva: “favorire, anche mediante una diversa organizzazione del lavoro, delle condizioni e del tempo di lavoro, l’equilibrio tra responsabilità familiari e professionali e una migliore ripartizione di tali responsabilità tra i due sessi.”
Dal 1991 siamo ancora a livello di analisi, d’altronde dalla legge 1204 del ‘71 a tutela della maternità si è dovuti arrivare alla legge 53 del 2000 per conquistare il diritto soggettivo dei padri ai congedi parentali e non solo “in alternativa alla madre”. Bisogna sperare che i cambiamenti significativi non abbiano sempre bisogno di 30 anni.
E’ di Livia Turco la norma che riconosce fino ad un massimo di due anni di congedo per assistere un familiare non autosufficiente, con indennità al 100% della retribuzione, però per i caregiver siamo ancora indietro.
Queste conquiste dimostrano che non tutti i governi sono uguali e che le donne devono ancora conquistare reali pari opportunità e parità.
L’attuale proposta di legge di bilancio prevede all’articolo 31 (Assegno una tantum per nuove nascite o nuove adozioni), un assegno una tantum, pari a 1.000 euro, per ogni figlio nato o adottato a decorrere dal 1° gennaio 2025. La relazione tecnica stima effetti finanziari pari a 330 milioni di euro per il 2025 e in 360 milioni annui a decorrere dal 2026.
Voglio sottolineare che gli articoli 32 e 33 (Buono per le rette relative alla frequenza di asili nido e per le forme di supporto domiciliare per bambini affetti da gravi patologie croniche) recano alcune modifiche della disciplina sul buono per il pagamento di rette relative alla frequenza di asili nido, pubblici e privati, e per le forme di supporto domiciliare per bambini aventi meno di tre anni di età e affetti da gravi patologie croniche. Praticamente dispongono incrementi del limite di spesa per il bonus nido. L’incremento è complessivamente pari a 102 milioni di euro per l’anno 2025, 136 milioni per l’anno 2026, 199 milioni per l’anno 2027, 202 milioni per l’anno 2028 e 205 milioni annui a decorrere dall’anno 2029. Un terzo delle risorse per l’assegno nascita.
E’ giusto ricordare che la disciplina del suddetto buono è prevista dall’articolo 1, comma 355, della Legge 11 dicembre 2016, n. 232, quindi una norma voluta da un governo di centrosinistra, a conferma che non tutti i governi sono uguali.
L’attuale governo punta all’immagine e pubblicizza un assegno di 1000 euro per le nascite, ma dare 1000 euro nel momento in cui c’è una riduzione di stipendio se si lavora può essere un incentivo a pensare alle dimissioni volontarie entro un anno dalla nascita per poter prendere poi due anni di Naspi. Le donne tendono a dimettersi se non trovano servizi e supporto, quindi i 1000 euro costituiscono un impegno alto di risorse, ma non sono un aiuto per le donne per rimanere nel mondo del lavoro.
Invece il PNRR prevedeva risorse per creare asili nido, ma il governo ha ridotto le risorse dichiarando che “ci accontentiamo” di una copertura del 15% a livello regionale.
L’obiettivo del PNRR era accorciare le disuguaglianze territoriali nei servizi per la prima infanzia, in nome dei diritti dei bambini. Il previsto 15% è meno della metà del 33% che l’Europa aveva indicato come target da raggiungere entro il 2010 e un terzo del nuovo target che dovremmo raggiungere entro il 2030.
Frequentare l’asilo nido è anche un primo passo contro la povertà educativa e per un’inclusione di qualità nella socializzazione.
Sono decisioni contro le donne perché creare asili nido è creare occupazione di qualità, con retribuzioni e contribuzione certe, creare asili nido è produrre un volano di occupazione.
Gli asili nido sono cari, quindi il bonus per asili nido è una misura giusta per le famiglie e permette alle donne di rimanere nel mondo del lavoro.
Non ci si può lamentare della denatalità, accusare le donne di egoismo nel rinunciare alla maternità o colpevolizzarle perché scelgono il lavoro alla maternità e poi nella stessa legge di bilancio favorire implicitamente le loro dimissioni.
Andrea Orlando, allora ministro del Lavoro, con il DLGS 105 nel 2022 prevedeva che anche i padri possano godere della Naspi se si dimettono dal lavoro volontariamente nel primo anno dopo la nascita, non lo faranno in molti ma è sempre un passo affinché le aziende “rischino” gli effetti della genitorialità in termini di congedi, assenze, possibili dimissioni sia assumendo una donna che un uomo.
Inoltre, un altro aspetto positivo nel rimanere nel mondo del lavoro per le donne, consiste nel garantire loro una reale autonomia economica, condizione fondamentale per riuscire a reagire alla violenza domestica. Tutto è sempre molto intrecciato.
Ho sempre separato le pensioni di vecchiaia da quelle di anzianità per essere precisa e dimostrare le differenze di genere, ma adesso penso che si debba usare l’importo medio, ovviamente diviso tra uomini e donne, ma l’importo medio di tutte le pensioni di vecchiaia e di anzianità cumulate insieme, come ho scelto di fare all’inizio di questo contributo alla riflessione, perché mi sembra che dimostri meglio tutto il percorso che penalizza le donne, ribadire e continuare a ripetere che l’importo medio delle pensioni degli uomini è 1.897,80 e quello delle donne è 989 evidenzia chiaramente che le donne scontano le assenze dal mondo produttivo per lavori di cura, i periodi a part time e non aver fatto carriera…