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23 Luglio 2024Non si tratta di singoli casi ma di sconfiggere un problema strutturale
di Maria Cecilia Guerra
Responsabile lavoro nella Segreteria nazionale del Partito democratico
Dai dati la conferma delle radici del problema
I dati sulle molestie sessuali sul luogo di lavoro, resi noti dall’Istat a inizio luglio, confermano ancora una volta quanto il fenomeno sia diffuso. Confermano anche il suo forte connotato di genere: le persone che subiscono molestie sono infatti donne nell’81,6% dei casi, mentre chi agisce la violenza è nella stragrande maggioranza dei casi un uomo. Più precisamente, sono 1 milione 900 mila – il 13,5% di quelle che lavorano o hanno lavorato – le donne di età compresa fra i 15 e i 70 anni che hanno subito, nel corso della vita, molestie sul lavoro a sfondo sessuale. E il dato è ancora più impressionante se si concentra l’attenzione sulle donne più giovani, di età compresa fra i 15 e i 24 anni, che hanno subito molestie sul luogo di lavoro nel 21,2% dei casi.
Sono dati che più che meravigliare forniscono conferme. È difficile sconfiggere comportamenti che affondano le loro radici in un terreno culturale, sociale ed economico intriso di stereotipi di genere e ancora caratterizzato da rapporti di potere maschio/femmina fortemente squilibrati. Il luogo di lavoro si presta infatti in modo particolare all’abuso di questi rapporti di potere diseguali. Le molestie sessuali diventano un modo per proteggere o migliorare il proprio status sociale e rafforzare la gerarchia di genere esistente.
Questo abuso di potere è indubbiamente favorito dalla maggiore debolezza contrattuale delle donne, più facilmente occupate in lavori precari, in settori sottopagati e marginali, con orari di lavoro ridotti, che le espongono maggiormente a ricatti e pressioni.
Se non si affrontano queste problematiche culturali, sociali e relative alle regole del mercato del lavoro, anche il fenomeno delle molestie sessuali difficilmente potrà essere sradicato e sconfitto.
Cosa sono le “molestie sessuali”
Per capire il problema e la sua diffusione bisogna avere chiaro che la dizione “molestie sessuali” ricomprende una vasta gamma di comportamenti. L’Istat li descrive, in sintesi, così: “sguardi offensivi, offese, proposte indecenti, fino ad atti più gravi come la molestia fisica”.
Si può trattare di attenzioni sessuali indesiderate, quali la manifestazione di un interesse sessuale non gradito e non corrisposto, in modalità che possono risultare spiacevoli, imbarazzanti, quando non traumatizzanti per la donna: riferimenti sessuali pesanti, contatti non consensuali, baci forzati, insistenti richieste per appuntamenti, fino ad arrivare alla violenza del rapporto sessuale senza consenso.
Sono molestie sessuali, anche se mirano a umiliare la persona più che a coinvolgerla in attività sessuali, gli atteggiamenti denigratori, umilianti o ostili basati sul genere o sul sesso, quali i riferimenti alla presunta incapacità delle donne, il ricorso a parole sessualmente degradanti. O il ricorso a gesti osceni e termini volgari indirizzati alla lavoratrice.
Un ruolo crescente hanno poi le molestie che si realizzano attraverso le tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Lo spettro dei comportamenti violenti ricomprende anche i “ricatti sessuali”, che l’Istat esamina a parte, e che sono volti a subordinare le condizioni di lavoro alla cooperazione sessuale. Sono ricomprese in questa categoria le promesse di ricompense professionali in cambio di favori sessuali (ad esempio, un’offerta di lavoro che viene subordinata a un atto sessuale), così come le minacce di danni professionali (quali retrocessione o licenziamento) se le richieste sessuali non vengono soddisfatte.
Negli ultimi tre anni che precedono la rilevazione del 2022-2023 (anni Covid, in cui il fenomeno è stato fisiologicamente più contenuto) le donne tra i 15 e i 70 anni sottoposte a qualche tipo di ricatto sessuale sono state, secondo l’Istat, circa 65mila. Non è il caso più numeroso ma ha conseguenze particolarmente odiose, perché il ricatto, quasi sempre ripetuto nel tempo, ha avuto conseguenze molto serie in più della metà dei casi: le donne che ne sono state vittime negli ultimi tre anni hanno rinunciato “spontaneamente” al lavoro (39,8%) o sono state licenziate, messe in cassa integrazione o semplicemente non assunte (12,6%). Questo, è bene segnalarlo, avviene in violazione della normativa in essere nel nostro paese, che, all’articolo 26 comma 3 del Codice delle pari opportunità, prevede esplicitamente che qualsiasi atto inerente al rapporto di lavoro (un mutamento di mansioni, un trasferimento, un provvedimento disciplinare ecc.) sia nullo se adottato “in conseguenza del rifiuto o della sottomissione” a comportamenti molesti e ricattatori.
Anche le molestie sessuali, non solo i ricatti, oltre a causare situazioni di forte disagio e stress che si ripercuotono sull’attività lavorativa, creano molto spesso difficoltà al recarsi ogni giorno al lavoro. Tendono quindi ad aumentare il numero di assenze, esponendo la lavoratrice al rischio di perdere il proprio lavoro.
Come (non) ci si difende dalle molestie sul luogo di lavoro
Le difficoltà che le donne incontrano a difendersi, nel caso in cui siano oggetto di molestie e ricatti sessuali, trovano la loro origine nelle stesse ragioni, e negli stessi stereotipi che rendono per loro complesso difendersi in tutti i casi in cui sono oggetto di violenza, sia che questa avvenga in ambito domestico sia che avvenga al di fuori delle case e dei luoghi di lavoro. Si tratta di stereotipi molto diffusi, e non solo fra gli uomini. Se è vero infatti che il 39,3% degli uomini si dichiara molto o abbastanza d’accordo con l’affermazione secondo cui una donna può sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole e quasi il 20% pensa che la violenza sia provocata dal modo di vestire delle donne, tali percentuali fra le donne sono sì più basse, ma si attestano comunque, rispettivamente, al 29,7% e 14,6%.
In questo contesto culturale, non meraviglia che la donna che subisce attenzioni moleste, ricatti o violenze sul luogo di lavoro faccia fatica a denunciarle, e anche solo a parlarne con altre persone. E che questo avvenga, in primo luogo, per la paura di essere giudicata, guardata con sospetto, considerata in un qualche modo colpevole, complice di quanto avvenuto. Ce lo confermano ancora una volta i dati dell’Istat: la maggior parte delle vittime che hanno subito ricatti sessuali sul luogo di lavoro (86,8%) li considerano un fatto molto o abbastanza grave, eppure, nell’87,7% dei casi, non li denunciano. Per quali ragioni? Principalmente perché hanno paura di essere considerate responsabili di quello che hanno subito (33,8%) o perché si vergognano o si auto-colpevolizzano (23,5%). Lo stesso avviene nel caso delle molestie sessuali sul posto di lavoro: 1 su 4 delle vittime non ne parla con nessuno.
Sul luogo di lavoro si aggiunge una specificità: come risulta dall’indagine Istat, anche volendo, non si sa spesso con chi parlarne. L’86,4% delle lavoratrici e dei lavoratori affermano che non c’è una persona a cui rivolgersi per denunciare o avere supporto nel caso si subiscano molestie. Il 69,7% dichiara esplicitamente che non saprebbe cosa fare qualora le subisse.
E questo è particolarmente grave, dal momento che:
– le molestie sul lavoro, comprese quelle sessuali, nel nostro ordinamento sono considerate atti di discriminazione;
– il codice civile (art. 2087) affida al datore di lavoro il compito di “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure … necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”;
– questi compiti del datore di lavoro sono stati ampliati e specificati dal Testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (dlgs 81 del 2008) che all’articolo 28 considera fra i rischi che devono essere oggetto, non solo di valutazione, ma anche di prevenzione e protezione, con l’individuazione di percorsi e soggetti responsabili, quelli “connessi alle differenze di genere”;
– con legge n. 4 del 2021 il nostro paese ha recepito la Convenzione Ilo sull’eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro che prevede l’introduzione di percorsi di protezione delle lavoratrici e dei lavoratori che ne siano oggetto.
Anche la fiducia nelle forze dell’ordine sembra essere piuttosto bassa: solo il 2,3% delle donne vittime di molestie ha contattato le forze dell’ordine e il 2,1% altre istituzioni ufficiali. A questo proposito è bene ricordare un ulteriore ordine di problemi: è difficile perseguire penalmente i comportamenti di molestia sessuale nel nostro paese, in quanto non esiste una fattispecie specifica di reato per le molestie sessuali, né a maggior ragione per quelle in ambito lavorativo. Nei casi più gravi, questi comportamenti vengono puniti come reati di violenza sessuale. Ma molto spesso ci si incontra con la difficoltà di affrontare percorsi di rivittimizzazione, o comunque con quella di dimostrare che l’atto è stato compiuto senza il consenso di chi l’ha subito, anzi con la sua contrarietà. E sappiamo che su questo terreno le pronunce dei tribunali non sono sempre incoraggianti. Basti ricordare, da ultima, la sentenza della Corte d’Appello di Milano, che ha assolto un ex sindacalista accusato di aver abusato di una hostess che gli aveva chiesto aiuto per una vertenza sindacale, in quanto la donna avrebbe impiegato più di venti secondi per reagire alla violenza che stava subendo.
Nei casi giudicati “meno gravi”, in cui non si è avuto, o non è stato possibile dimostrare, la presenza di violenza, minaccia o abuso di autorità, le molestie non vengono proprio punite o lo sono molto blandamente nell’ambito del reato di violenza privata.
Che fare?
Sul piano penale va ripresa con forza la proposta, avanzata in questa legislatura dalla senatrice del Partito democratico Valeria Valente, di introduzione di una specifica fattispecie penale, che permetta di punire il reato di molestie e in particolare quello di molestie sul luogo di lavoro.
Molto però può e deve essere fatto negli ambienti di lavoro, dando applicazione ai principi della normativa esistente citata al paragrafo precedente e ripresi anche: dalle Linee guida che l’Inail ha predisposto nel 2021; in importanti accordi sindacali e nell’esperienza di codici etici e di condotta di alcune grandi imprese.
Importante è avere sempre chiaro che, come ci ricorda la Convenzione Ilo, le molestie e le violenze sul luogo di lavoro sono un problema strutturale, non riguardano cioè singoli casi e singole persone, e come tale devono essere affrontate.
Gli strumenti da mettere a punto, in ogni luogo di lavoro, riguardano sia la prevenzione, anche attraverso programmi di orientamento di formazione e di sensibilizzazione, sia la protezione delle lavoratrici e dei lavoratori che ne siano oggetto, attraverso la predisposizione di appositi percorsi di ascolto, riscontro e reazione attiva (da estendersi anche agli eventuali testimoni). Il modello organizzativo che deve essere adottato richiede la rilevazione, il monitoraggio e quindi la gestione dei rischi, ma deve essere accompagnato anche da politiche più generali di partecipazione, trasparenza e informazione, che valorizzino le lavoratrici e i lavoratori e le loro rappresentanze.
Tutto questo senza mai perdere di vista la consapevolezza che le donne sono maggiormente esposte al rischio di violenza e che per evitare che questa situazione continui è necessario, come si è già ricordato, agire sulle cause sottostanti: rapporti di potere squilibrati, debolezza contrattuale specifica spesso legata a una diseguale distribuzione, sociale e familiare, del lavoro di cura, stereotipi, norme sociali e culturali su cui poggiano i pregiudizi nei confronti delle donne.