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Lo scorso 14 maggio il Consiglio dell’Unione europea ha adottato formalmente gli atti legislativi che riformano il quadro europeo per la gestione dell’asilo e della migrazione, segnando un momento significativo per l’Unione europea. Si tratta di un processo negoziale con pochissimi precedenti e che ci restituisce specifici atti regolamentari sullo screening, ovvero sulle procedure specifiche per la gestione dei migranti, sulla raccolta delle informazioni e sulla procedura per il riconoscimento della protezione internazionale, nel territorio e alla frontiera.
Un punto cruciale della riforma è l’assegnazione delle responsabilità tra gli Stati membri nell’esame delle domande di protezione internazionale. Questo sistema, forse non troppo distante dal passato, si sviluppa unitamente alla previsione di un meccanismo di solidarietà, che diventa obbligatoria ma resta allo stesso tempo flessibile per quanto riguarda le tipologie di contributo. Gli Stati membri hanno due anni per implementare questa normativa attraverso specifici Piani di azione, mentre la Commissione europea fornirà assistenza nel processo di attuazione attraverso un Piano comune.
Il nuovo quadro legislativo presenta alcune modifiche già negli strumenti utilizzati: sostituisce all’utilizzo di direttive (che per entrare pienamente in vigore hanno bisogno di una legge nazionale di recepimento) quello di regolamenti, che sono self-executing e non necessitano (a parte alcuni casi) di trasposizione interna. Le direttive, inoltre, sono generalmente utilizzate per stabilire standard minimi e lasciare agli Stati membri la possibilità di individuare il proprio livello di attuazione. Con l’adozione di regolamenti europei, se da un lato alcuni procedimenti potrebbero essere armonizzati dal punto di vista amministrativo, dall’altro lato le autorità degli Stati potrebbero essere scoraggiate nell’identificare criteri di protezione più elevati, riducendo qualsiasi profilo di flessibilità interna.
Infatti, l’impatto pratico della procedura di frontiera è significativo. I Paesi membri non possono permettere l’ingresso nel territorio a chi viene fermato ai confini, tranne in casi eccezionali. Inoltre, anche se il controllo si svolge vicino o dentro il territorio, ciò non costituisce un’autorizzazione all’ingresso. Si costruisce, insomma, una finzione giuridica di non ingresso, la quale è mantenuta anche per spostamenti dovuti a cure mediche o per questioni legali, fatto salvo il rispetto delle norme sui diritti fondamentali. Il nodo essenziale, quindi, sono proprio le procedure. Il regolamento introduce cambiamenti significativi, soprattutto alla frontiera: gli Stati membri, che ora hanno la facoltà di ricorrere ad un procedimento speciale per effetto di una direttiva, saranno tenuti ad applicare una forma uniforme di riconoscimento della protezione, che l’adozione di un regolamento rinforza in taluni casi specifici: l’ordine pubblico, la sicurezza interna, l’inganno all’autorità o la previsione di successo dell’istanza. Il procedimento prevede tempi rigidi: cinque giorni per presentare le domande e 12 settimane per decidere su di esse, estendibili a 16 settimane in caso di relocation. Se questi termini non sono rispettati, il richiedente potrà avere temporaneamente accesso nel territorio. Considerato che la procedura si applica anche a chi proviene da Paesi con bassi tassi di riconoscimento della protezione (su dati Eurostat), tale approccio solleva qualche interrogativo sul piano dell’effettività della protezione e sulla possibile tendenza a rendere preponderanti le logiche amministrative del processo, comprimendo l’analisi della situazione personale e case by case.
Per gli stessi motivi appena descritti, anche le procedure accelerate assumono maggiore obbligatorietà, con l’aggiunta di dieci motivi per la loro applicazione, nei quali si annoverano le domande irrilevanti, false, contraddittorie o presentate per ostacolare un ordine di espulsione. Il termine per decidere è ugualmente perentorio: tre mesi, estendibile solo per casi di comprovata complessità. Queste regole contemplano anche ai minori non accompagnati, nei casi in cui si rilevi un pericolo per la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico.
Anche il concetto di “Paese sicuro” diventa comune. Per quanto riguarda i profili che determinano la protezione, importanti modifiche comprendono il “primo paese di asilo”, il “paese terzo sicuro” e il “paese d’origine sicuro”. A ciò, si aggiunge l’introduzione di una nuova definizione di “protezione effettiva”: un paese non-UE che ha ratificato e rispetta la Convenzione di Ginevra sui Rifugiati – anche con eventuali riserve – è considerato in grado di offrire protezione effettiva. Tuttavia, anche gli Stati che non hanno ratificato la Convenzione possono essere ritenuti sicuri, se garantiscono ai rifugiati il diritto di permanenza pro tempore, assistenza sanitaria e istruzione. Questo cambiamento è particolarmente rilevante in territori dove si applicano limitazioni geografiche alla Convenzione o una sorta di accoglienza preferenziale dello straniero.
In definitiva, la denominazione di “Patto” riassume il senso di un difficile negoziato. Tuttavia, la partita politica e le ricadute giuridiche, economiche e sociali di questo impianto normativo sono ancora da verificare: il pericolo di una restrizione ingiustificata dei flussi migratori e il mancato rispetto dei diritti fondamentali presuppongono la massima attenzione per la società civile europea.