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Nel 2016 l’urbanista della Sorbona – Carlos Moreno – creò l’espressione “città di 15 minuti“. In un articolo pubblicato sul giornale francese La tribune, intitolato “La città del quarto d’ora: per una nuova cronourbanistica” scriveva: “conciliare le esigenze della città sostenibile ma anche i nuovi ritmi con altri modi di abitare, lavorare e trascorrere il tempo libero, richiede una trasformazione dello spazio urbano ancora fortemente monofunzionale, con il centro città e le sue diverse specializzazioni verso una città policentrica, spinta da 4 componenti principali: prossimità, diversità, densità, ubiquità. È la città di un quarto d’ora, di iperprossimità, di “accessibilità” a tutti e in ogni momento… Quella in cui, in meno di 15 minuti, un abitante può accedere ai suoi bisogni essenziali della vita”. Nel 2020 la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, inserì nel suo programma, in occasione della sua rielezione, questo concetto; nel frattempo la diffusione della pandemia ha imposto alla società globale di riflettere e cambiare il paradigma su molte questioni della vita pubblica e privata, tra cui proprio la gestione dello spazio e della mobilità, soprattutto nelle grandi città. Ed è in quel preciso momento che l’idea della “città in 15 minuti” assume un carattere globale perché rappresenta lo strumento che può migliorare la qualità della vita delle persone, rendere le città più efficienti, più sostenibili e più a misura di cittadino. Ma la diffusione del Covid-19 ha costretto anche a confrontarsi con la necessità di promuovere e sostenere nuovi modelli di sanità: nel nostro Paese, in particolare, sono emersi tutti i limiti del sistema sanitario fondato sulla centralità dell’assistenza ospedaliera. Di fronte a una popolazione sempre più anziana e spesso non autosufficiente, con un incremento delle patologie croniche legate all’invecchiamento, anche grazie ai progressi positivi della ricerca e della scienza, è diventata sempre più chiara l’esigenza di spostare l’assistenza dall’ospedale al territorio attraverso una presa in carico continua e multidisciplinare dei pazienti con una gestione proattiva fondata sulla prossimità della cura, sull’assistenza domiciliare e sulla presa in carico in equipe multidisciplinari e team integrati.
Il potenziamento della sanità territoriale altro non è che la traslazione del concetto di “città di 15 minuti” in quello di “cura in 15 minuti”: al fine di evitare un uso eccessivo e, spesso, inutile delle cure ospedaliere, diminuire il numero dei ricoverati, offrendo prestazioni territoriali più qualificate, eliminare la mobilità sanitaria e i costi a carico di pazienti e famiglie, occorre promuovere una rete territoriale che integri l’offerta sanitaria, socio-sanitaria e socio-assistenziale. L’obiettivo del PNRR, con la riforma del modello organizzativo della rete di assistenza territoriale, è proprio quello di dare vita a un nuovo modello che si articoli sul concetto di prossimità per portare le risposte ai bisogni di salute il più vicino possibile ai cittadini. Ricordo infatti che il principale obiettivo della Missione 6 del PNRR è quello di attuare una rivoluzione nella presa in carico dei pazienti e una nuova cultura della cura, sviluppando la sanità di prossimità, passando dalla centralità della rete ospedaliera, che continuerà ad accogliere i casi gravi e acuti, alla centralità del territorio (case di comunità, ambulatori, farmacie dei servizi, visite a domicilio, telemedicina), facendo diventare la casa il principale luogo di cura dei pazienti, con grandi benefici sia per il cittadino paziente sia per i caregiver e tutto il nucleo familiare. Da qui, il potenziamento dell’assistenza domiciliare, anche grazie all’impiego della telemedicina e la realizzazione di nuove strutture e presidi sanitari sul territorio, tra cui appunto le case di comunità, che migliorano l’accessibilità e ampliano la disponibilità di servizi di prossimità ai cittadini.
La “cura in 15 minuti” si fonda proprio su un nuovo assetto istituzionale per la prevenzione sul territorio in ambito sanitario, ambientale e climatico, in linea con un approccio integrato (One Health) e con una visione olistica (Planetary Health). Un passo avanti straordinario verso modelli di vita e di cura più sostenibili, efficaci, a misura di persona, soprattutto le più vulnerabili, in primis donne e anziani, in grado di offrire risposte più mirate a esigenze sempre più differenziate e complesse.
La crisi della natalità, l’invecchiamento della popolazione e le difficoltà di garantire la sostenibilità del sistema pensionistico produrranno effetti difficili da misurare, ma possiamo immaginare che la popolazione più anziana avrà sempre più bisogno di cure territoriali eque, continue, capillari e tempestive, a maggior ragione, nei grandi centri urbani. Oggi le tecnologie e le capacità progettuali e organizzative innovative devono essere messe a disposizione dei cittadini per vivere un nuovo concetto di vicinanza, da declinare tra prossimità e umanità. E questo significa proprio costruire città di 15 minuti, dotate di tutti i servizi di base, a partire dai servizi educativi e socio sanitari, necessari per le proprie esigenze di vita quotidiane. In un bel saggio di Ezio Manzini, professore onorario al Politecnico di Milano, “Abitare la prossimità”, si sottolinea l’urgenza di creare una sinergia grazie alla quale la costruzione della città della prossimità produce un contesto favorevole per le comunità della cura e, viceversa, la costruzione delle comunità della cura diventa uno dei terreni più favorevoli per realizzare l’avvicinamento alla città della prossimità. La città in 15 minuti è quindi la città della cura. Innovazione, digitalizzazione e sostenibilità sociale sono i concetti con cui realizzare la prossimità di questo nuovo modello, che deve mettere al centro i bisogni dei cittadini e la qualità della vita.
Se il PNRR è uno strumento effettivo di cambiamento, se le istituzioni sono in grado di gestire questi processi di transizione -capendone la portata rivoluzionaria- dobbiamo partire da qui: dalla nuova centralità del paziente con il superamento del paradigma rigido di accesso alla cura e alla presa in carico ospedaliera e con il riconoscimento di tutti i suoi diversi e complessi bisogni, fornendo risposte differenziate e personalizzate.
Questo, infine, significa anche realizzare all’interno delle città “comunità curanti” che grazie al lavoro sinergico tra servizi sociali e sanitari, tra soggetti pubblici e del privato sociale, tra le istituzioni del territorio e le differenti professioni possano costruire nuovi percorsi e luoghi di cura, interventi e servizi di sostegno alla domiciliarità per la popolazione più fragile. Tramite l’attivazione di questi processi partecipativi, costruiti anche intorno alla co-progettazione dei cittadini- si può innalzare il livello di qualità della vita delle persone e il benessere delle comunità. Anche questo è un modello che va sviluppato -ci sono molte buone pratiche sui nostri territori- per ricostruire in termini di prossimità e proattività il rapporto tra persone, servizi, territorio, governance locale con l’obiettivo di mettere al centro lo stare bene dei cittadini con il loro vivere e abitare, senza dimenticarci mai l’importanza delle relazioni, dell’umanità e della fiducia così importante tra istituzioni, anche quelle sanitarie, e cittadino.
La città della cura in fondo altro non è che la scoperta dell’umano sostenibile.