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3 Settembre 2024Un bilancio ad un anno dall’approvazione della delega fiscale del Governo Meloni
di Cristina Tajani, senatrice, capogruppo del Partito Democratico in commissione Finanze
Dopo un anno e una decina di decreti legislativi è lecito domandarsi a che punto sia la “rivoluzione fiscale” annunciata lo scorso agosto da Meloni, Giorgetti e Leo.
Il sistema fiscale è la cartina di tornasole della capacità di una democrazia di produrre equità sociale, redistribuzione, parità di condizioni in partenza, certezza del diritto. Ed è indubbio che il nostro sistema avesse bisogno di una profonda revisione per rispondere al dettato Costituzionale anche in materia di progressività. Purtroppo per il Paese, le scelte di politica fiscale del Governo Meloni, dal momento del suo insediamento ad oggi, si sono mosse in direzione opposta a questi principi ispiratori.
Di fronte ai grandi vulnus del nostro sistema fiscale: la fuga dall’Irpef di intere categorie di contribuenti; l’evasione monster che non ha pari in altri paesi europei; l’incertezza e l’arbitrarietà nei rapporti tra il contribuente e il fisco, il Governo e la maggioranza hanno proposto ricette inadeguate, ispirate all’idea – gravemente eversiva rispetto al rapporto di fiducia tra cittadini e Stato – che le tasse siano un sopruso se non addirittura un “pizzo” (la definizione è della stessa Premier) estorto dalle istituzioni ai cittadini.
Non è un caso, infatti, che il percorso di approvazione della delega fiscale, avvenuta nell’agosto del 2023, sia stato costellato da dichiarazioni improprie di diversi esponenti del Governo. Tra questi il Vicepremier Salvini particolarmente aduso all’annuncio di condoni e sanatorie di diverso tipo. Dichiarazioni che, in fase di approvazione della delega, hanno allarmato persino i tecnici del Mef, minando l’efficacia delle misure di recupero fiscale allora in corso, come la rottamazione Quater. In economia – infatti – le aspettative di norme future sono in grado di produrre effetti sul gettito presente.
Invece di porre rimedio alla fuga dall’Irpef, con il suo corretto sistema di progressività, la delega da una parte accentua il carattere frammentario del sistema fiscale – con la proliferazione di regimi sostitutivi e cedolari e con la riduzione degli scaglioni Irpef; dall’altra non abbandona lo sciagurato orizzonte della Flat-tax, vigente per una crescente platea di lavoratori autonomi. Un modo per fare parti uguali tra disuguali, quella che secondo la famosa massima di Don Milani è la peggiore delle ingiustizie.
Oggi l’Irpef è una tassa che viene pagata per l’85 per cento dai lavoratori dipendenti e dai pensionati: due categorie che non sono propriamente centrali nello schema neo-corporativistico del Governo Meloni e che comunque non rappresentano la costituency capace di esprimere maggiore voce all’interno dell’attuale maggioranza.
Quanto all’equità orizzontale, cui pure si fa riferimento a parole nella delega, se confrontiamo le diverse categorie di contribuenti, a parità di reddito, supponiamo 50.000 euro, scopriamo che su un lavoratore dipendente grava un onere contributivo 1,6 volte più alto di quello di un percettore di dividendi, di 2 volte superiore rispetto a chi dà in fitto i propri immobili con la cedolare secca e di 2,8 volte maggiore di quello di un professionista in regime forfetario.
L’accorpamento delle prime due aliquote Irpef non restituisce né progressività, né equità orizzontale. Per altro il risparmio fiscale per contribuente medio è irrisorio. Secondo le stime si aggira intorno ai 70 euro per contribuente mentre l’intera operazione costa allo Stato quasi 5 miliardi, da rifinanziare ogni anno, esattamente la cifra richiesta e non ricevuta dal Ministro della Sanità per assunzioni e riduzione delle liste d’attesa. Dal punto di vista dell’equità è evidente che finanziare un bene collettivo come la sanità pubblica avvantaggia chi ha più bisogno: un esame diagnostico o un intervento chirurgico sul mercato della sanità privata cosa ben più dei 70 euro risparmiati dall’ipotetico contribuente.
E come se non bastasse, la delega contribuisce a questa ingiustizia guardandosi bene dal ridurre i regimi di tassazione separata o cedolare ma, al contrario, aggiungendone altri.
Penso all’estensione della cedolare secca agli immobili strumentali, non ancora attuata ma particolarmente iniqua. Nelle nostre città abbiamo bisogno di mantenere accese le luci dei piccoli commercianti, degli artigiani, degli operatori economici di prossimità e di vicinato con misure che gli aiutino a sostenere i costi degli affitti, non a premiare i detentori della rendita immobiliare senza nulla distribuire ai piccoli operatori.
E qui veniamo ad un altro tema estremamente critico nell’impostazione della delega. La proliferazione di regimi separati di tassazione, compresa la cedolare secca, contribuisce al risultato di ridurre la base imponibile e il gettito per enti locali e regioni, soggetti erogatori di servizi essenziali per i cittadini che rischiano di dover sostenere il peso di questi servizi con risorse proprie o nuove tasse a livello locale. Sarà questo l’esito finale dell’autonomia differenziata?
Infine, non si può tacere sulla nuova disciplina in materia di riscossione. Nel nostro Paese l’evasione – non c’è bisogno di ricordarlo – sfiora annualmente i 100 miliardi di euro, pur registrando, com’è noto, alcuni progressi negli ultimi tempi. Abbiamo una propensione all’evasione dell’Irpef, da parte del lavoro autonomo e d’impresa, vicina al 70 per cento. L’IVA è più evasa solo in 4 Paesi dell’area UE. Eppure i decreti attuativi della delega prevedono diverse forme di “scudi”, anche penali, per le dichiarazioni infedeli e sconti per gli evasori. Mentre l’esito del concordato preventivo biennale, in termini di adesione dei contribuenti e relativo gettito, è messo in discussione dalla freddezza degli stessi commercialisti sullo strumento. Tanto che il Governo ha dovuto apportare in corsa dei correttivi per renderlo più attrattivo, mentre l’esito finale rimane incerto.
Se non vi fosse solo una questione di equità e giustizia, vi sarebbe comunque un grave tema di sostenibilità per le finanze dello Stato tanto che la misura più importante della delega, ovvero l’accorpamento delle aliquote Irpef, è stata finanziata solo per 1 anno e scopriremo in autunno come e se verrà rifinanziata.
Non stupisce che la maggioranza, tra ricerca del consenso, pressioni degli interessi costituiti e necessità di far quadrare i conti, si sia divisa più volte proprio sui temi fiscali: dalla tassa sugli extra profitti delle banche, risolta in una nulla di fatto, all’uscita dal superbonus. Per non parlare della resa totale ad ogni rendita di posizione, ben rappresentata dalla vicenda dei balneari e dei tassisti. Le raccomandazioni specifiche che la Commissione Europea rivolge a ciascun paese ci chiedono di riequilibrare il peso fiscale tra lavoro e rendita. Tutto il contrario delle ricette cucinate da questo Governo.