Governance e strumenti per il rilancio delle politiche industriali in Europa e in Italia
25 Marzo 2024Salario minimo, uno scandalo italiano
11 Aprile 2024di Luisa Gnecchi
Ci si interroga su come evitare gli squilibri generati dalla crescita della popolazione anziana e dalla riduzione della natalità.
Occorre agire su vari fronti per evitare che questi squilibri diventino insostenibili.
Anziché “predicare fate più figli”, occorre ridurre il gap tra il desiderio di avere figli e la possibilità di averne. Tra l’altro, gli interventi in questa direzione favoriscono una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro, con gli effetti positivi che ne derivano.
Tra questi interventi, sono essenziali quelli che riducono il divario tra carico del lavoro di cura delle madri e quello dei padri, e promuovono una vera condivisione della responsabilità genitoriale.
Le prime norme a tutela della maternità sono la legge 860 del 1950 e quella che ha affermato i diritti delle lavoratrici madri dipendenti, la 1204 del 1971, che è stata per molti anni la norma base.
Questa però permetteva ai padri di potersi occupare dei figli solo in alternativa alla madre: quindi il diritto del padre discendeva dalla condizione di lavoratrice dipendente della madre, non lavoratrice autonoma, libera professionista, studentessa, inoccupata o disoccupata, casalinga.
Si è dovuti arrivare fino all’8 marzo del 2000, con la legge 53 (di Livia Turco), per veder sancito il diritto soggettivo dei padri ai congedi parentali; per poter avere perentorio un minimo di dovere da parte dei padri, si è dovuti arrivare alla legge 92 del 2012, che, nell’ambito di interventi volti alla promozione di una cultura di maggior condivisione dei compiti di cura dei figli, ha previsto una giornata obbligatoria di astensione dal lavoro per i padri e due facoltative, da godere in alternativa alla madre, come misura sperimentale per gli anni 2013/2015; misura confermata negli anni successivi, aumentando il numero di giornate, fino ad arrivare con la legge di bilancio per il 2022 ai 10 giorni obbligatori attuali, non più sperimentali, peraltro indennizzati al 100% della retribuzione.
A dimostrazione di quanto siano lunghi i periodi per conquistare pari opportunità e diritti, va ricordata la legge 903/77 “Parità di trattamento di uomini e donne in materia di lavoro”, che però ha avuto bisogno di essere rafforzata nel 1991 dalla legge 125 “Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro e contro le discriminazioni”. E quelle norme hanno avuto bisogno ancora di essere confermate e precisate con la legge 162/2021 che ha sancito ulteriori obblighi, modificando il codice delle pari opportunità tra uomo e donna di cui al DLGS 198/2006 per rafforzare disposizioni contro le discriminazioni in ambito lavorativo.
Ricordo sempre che già la legge 125 del 1991 aveva dimostrato che si possono promuovere azioni positive per le donne solo contrastando il fatto che tutti i lavori di cura, di assistenza e di organizzazione familiare gravino su di loro, per cui quella legge, già all’ Art. 1 (Finalità), sancisce:
“1. Le disposizioni contenute nella presente legge hanno lo scopo di favorire l’occupazione femminile e di realizzare, l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro, anche mediante l’adozione di misure, denominate azioni positive per le donne, al fine di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità. 2. Le azioni positive di cui al comma 1 hanno in particolare lo scopo di: a) eliminare le disparità di fatto di cui le donne sono oggetto nella formazione scolastica e professionale, nell’accesso al lavoro, nella progressione di carriera, nella vita lavorativa e nei periodi di mobilità; b) favorire la diversificazione delle scelte professionali delle donne in particolare attraverso l’orientamento scolastico e professionale e gli strumenti della formazione; favorire l’accesso al lavoro autonomo e alla formazione imprenditoriale e la qualificazione professionale delle lavoratrici autonome e delle imprenditrici; c) superare condizioni, organizzazione e distribuzione del lavoro che provocano effetti diversi, a seconda del sesso, nei confronti dei dipendenti con pregiudizio nella formazione, nell’avanzamento professionale e di carriera ovvero nel trattamento economico e retributivo; d) promuovere l’inserimento delle donne nelle attività, nei settori professionali e nei livelli nei quali esse sono sottorappresentate e in particolare nei settori tecnologicamente avanzati ed ai livelli di responsabilità; e) favorire, anche mediante una diversa organizzazione del lavoro, delle condizioni e del tempo di lavoro, l’equilibrio tra responsabilità familiari e professionali e una migliore ripartizione di tali responsabilità tra i due sessi.”
Questo è il vero problema ancora irrisolto: l’equilibrio tra responsabilità familiari e professionali, e siamo a 35 anni da quella legge.
Dalla legge 1204 del ‘71 abbiamo impiegato 30 anni per conquistare il diritto soggettivo dei padri ai congedi, nel 2000, e altri 22 anni sono serviti per arrivare alle 10 giornate di astensione obbligatoria dal lavoro dei padri. Purtroppo sembra che ancora non lo si sappia o non vengano utilizzati come si potrebbe e dovrebbe. La nostra unità di misura per i miglioramenti reali è la decina di anni?
Dobbiamo veramente imporre una riflessione collettiva sui lavori di cura, sulla genitorialità: non si può parlare solo di denatalità e pericoli della denatalità se non si affrontano le conseguenze nella vita delle persone, ma in particolare delle donne: cosa significa avere figli senza poter godere di servizi adeguati per il benessere di bimbi e bimbe, per la tranquillità delle famiglie, per un’educazione al rispetto reciproco, al rispetto anche delle madri che non devono sacrificare la realizzazione di un progetto di sé perché madri?
Per quanto riguarda la natalità, si deve fare in modo che un evento affascinante come una nascita non peggiori troppo, oltre alle condizioni economiche, anche l’organizzazione dei tempi di vita e di lavoro dei genitori.
Un padre ha fruito di tre giorni di congedo parentale, il 22, 23 e 24 novembre 2022, e l’azienda gli ha contestato un presunto abuso consistente nell’aver accompagnato la figlia a scuola alle 9, e aver ripreso la figlia alle 13: durante questo spazio di tempo, si è fermato al bar, è andato a far la spesa e poi è andato a casa. L’azienda lo ha licenziato, aveva usato anche altri congedi; per fortuna il tribunale di Perugia, Sezione Lavoro, con sentenza n. 36/2024 ha dichiarato la nullità del licenziamento e ha ordinato la reintegra nel posto di lavoro del padre.
Questa storia però dimostra che ormai le aziende si sono rassegnate al rispetto dei diritti delle madri, ma non ammettono di riconoscere i diritti di paternità.
Le donne sono sempre state penalizzate in modo più sofisticato: tutelate dalle norme per le assenze, ma discriminate rispetto alle possibilità di carriera, di aumenti retributivi e incentivazioni varie; sono spesso state costrette a dover scegliere mansioni meno impegnative e riduzioni di orario di lavoro, con conseguenze pesanti anche nel calcolo della pensione. E quindi adesso, da un lato, le aziende reagiscono contro i diritti dei padri, e dall’altro i padri, vedendo le discriminazioni subite dalle colleghe, evitano di far valere i loro diritti e evitano di assumersi le “pari responsabilità” di cui parlava già la legge del lontano 1991.
Cosa fare? Impegnarci realmente per i congedi paritari.
Il 13 marzo 2024, in una Question Time alla Camera, il Pd ha chiesto: “quando il Governo intenda adottare il decreto legislativo previsto dalla legge delega 7 aprile 2022, n. 32, in linea con le esperienze più avanzate in Europa che prevedono la fruibilità almeno per tre mesi del congedo di paternità, rendendo noto alle Camere il numero dei lavoratori che sin qui ne hanno realmente usufruito. (3-01063).”
Dopo questa richiesta in aula alla Camera, i Consigli Regionali del Veneto, dell’Emilia Romagna, della Campania, della Lombardia, della Liguria, del Lazio e delle due province autonome di Trento e Bolzano, a seconda dei regolamenti di ciascuna Assemblea Legislativa, hanno comunque impegnato le Giunte e i Consigli, con formule tecniche diverse.
Ma, nella sostanza:
“si impegna la Giunta e l’Assemblea per quanto di rispettiva competenza a farsi promotrici nelle sedi nazionali, a partire dalla Conferenza delle Regioni e Stato-Regioni nonché coinvolgendo le rappresentanze parlamentari, della tempestiva adozione da parte del Governo di norme attuative la legge delega 7 aprile 2022 n. 32 in materia di congedo di paternità obbligatorio, al fine di estenderne il periodo in linea con i Paesi più avanzati e soprattutto in linea con l’esigenza sociale di riequilibrare il lavoro di cura verso una effettiva condivisione delle responsabilità di cura e genitoriali tra uomini e donne”.
Vale la pena di ricordare che la legge delega è del Governo Draghi, ministro Orlando; è suo anche il decreto legislativo n. 105 del 2022, entrato in vigore il 13 agosto 2022, che ha reso strutturale il congedo di paternità obbligatorio per i lavoratori dipendenti (nel pubblico e nel privato), della durata di 10 giorni, da utilizzare nei due mesi precedenti la data presunta del parto ed entro i cinque mesi successivi, retribuiti al 100 per cento a carico dell’Inps. Quindi dobbiamo assolutamente andare avanti: solo pari responsabilità genitoriali, congedi paritari, educazione all’affettività e al rispetto reciproco, oltre ovviamente ad un lavoro di qualità, con retribuzione e contribuzione dignitose, servizi adeguati alle necessità delle persone e delle famiglie, veri volani di occupazione, riusciranno a rimettere in moto la natalità e a colmare la differenza tra il desiderio di figli e la possibilità di averne.