
A cura di Irene Tinagli: Finanziamento del piano ReArmEU
25 Marzo 2025
A cura di Nicoletta Pirozzi: Difesa comune europea: i nodi (politici) da sciogliere.
25 Marzo 2025di Giuseppe Famà *
Testo della relazione introduttiva al seminario della Fondazione Demo intitolato “Difendere la pace. Un nuovo modello europeo di politica estera, di difesa e di sicurezza” che si è svolto lo scorso 14 febbraio 2025.
Voglio presentare una riflessione su qualche elemento specifico della difesa e sul bisogno di fare un salto di qualità per l’Europa, guardando essenzialmente a tre domande essenziali. La prima è in che quadro vogliamo farlo, perché europeo vuol dire tante cose; la seconda è con chi vogliamo farlo; e la terza con che risorse vogliamo farlo.
Ma prima d’ogni cosa, perché dovremmo farlo? Se guardiamo al trend mondiale riguardo l’aumento dei conflitti e l’uso della forza tra stati, la situazione è molto grave. Nel 2021, l’anno prima dell’invasione russa dell’Ucraina e due anni prima dell’escalation in Medio Oriente, abbiamo registrato un aumento del 46% dei morti per conflitti rispetto al 2020. Se usassimo la stessa base, lo stesso parametro, l’aumento sarebbe più del doppio. Quello che però ha subito un’accelerazione, una trasformazione maggiore, è la natura della minaccia. Se da una parte c’è un ritorno alla guerra convenzionale nel nostro continente, dall’altra ci confrontiamo con l’esplosione di minacce ibride contro l’Unione Europea. Queste due dinamiche si combinano pericolosamente. Come ha detto bene l’ex Alto Rappresentante Josep Borrell al termine del suo mandato: non siamo in guerra, ma sicuramente non siamo in pace.
Qualche numero per capire questo trend: al momento la Russia spende fino al 9% del suo Pil e circa il 37% del bilancio nazionale per la difesa, anche con l’intenzione di tenere la pressione alta sui confini orientali della nostra Unione. In generale, queste minacce hanno una combinazione senza precedenti su tutto il territorio europeo anche per tipologia e estensione. Le manifestazioni di queste minacce ibride vanno dall’interferenza elettorale – pensiamo alla Moldavia – al sabotaggio delle infrastrutture critiche, per i cavi sottomarini in Mar Baltico, o gli incidenti in Germania e Polonia con i pacchi incendiari nelle reti di distribuzione. A questo si somma la costante interferenza dei segnali radio, GPS e satellitari che alimentano tanto le nostre economie quanto nostri i sistemi di difesa.
Diversi rapporti indicano una certa preparazione – e quindi una volontà – da parte russa di testare la nostra deterrenza nei prossimi cinque anni. Il guaio è che questo succede proprio quando gli Stati Uniti, garanti della nostra deterrenza, insistono sul fatto che l’Europa debba assumere una maggiore responsabilità nella propria difesa. Lo ha detto esplicitamente il nuovo Segretario alla difesa Hegseth a Ramstein: sostanzialmente gli Stati Uniti vogliono una divisione del lavoro per cui loro devono dedicarsi alla deterrenza della Cina, e, al netto della Nato, la difesa dell’Europa deve essere una questione principalmente europea e che quindi devono essere europei i mezzi per poterla assicurare.
Oggi, in sostanza, il nostro dilemma è ritrovare la giusta combinazione di diplomazia e di deterrenza adeguata a questo contesto internazionale. Se cerchiamo però di fare un bilancio in questa fase, il piatto su cui siamo un più sguarniti è quello della deterrenza.
Torniamo ai tre punti che menzionavo. Il primo: in che quadro impegnarci per farlo?
Le opzioni principali sono principalmente due, non soltanto come modello, ma anche come contesto istituzionale. Da una parte lavorare nella Nato e dall’altra lavorare nella UE. In termini generali la deterrenza, la dissuasione militare e la difesa collettiva del nostro territorio sono ragione d’essere della Nato. Non dimentichiamo che 23 su 27 Stati membri UE sono alleati Nato, e in termini demografici siamo intorno al 94% della popolazione comune alle due.
L’Unione Europea ha un ruolo forte anche in termini di sicurezza e difesa, e dal canto suo dispone di strumenti e maggiori flessibilità per iniziative comuni di sicurezza internazionale, in senso expeditionary (di spedizione). Pensiamo all’operazione militare Aspides nel Mar Rosso per proteggerci dagli attacchi degli Houthi in Yemen contro il traffico marittimo internazionale; la missione di formazione in Mozambico per aiutare a contrastare la rivolta jihadista nel nord del paese; e certamente tutti gli interventi civili di sostegno alla pace e alla stabilità internazionale, come la missione UE al valico di Rafah, che contribuisce ad accompagnare il cessate il fuoco a Gaza. Tuttavia, se da una parte la difesa collettiva si incentra comunque sulla Nato, per parte nostra possiamo comunque contare su delle strutture di difesa e sicurezza in forte crescita e consolidamento, soprattutto in settori come la sicurezza cibernetica, lo spazio e le minacce ibride.
In realtà, tutto l’impianto militare della Ue passa spesso in sordina. L’Ue ha un proprio Stato Maggiore militare, che per ragioni particolari è integrato dentro il nostro servizio diplomatico europeo, e che stiamo mettendo nelle condizioni di poter esercitare pienamente comando il controllo di operazioni militari complesse. Qui serve il sostegno degli stati membri. C’è anche una certa confusione su quello che alcuni hanno chiamato l’esercito comune europeo. Da gennaio l’Ue si è dotata della cosiddetta “Rapid Deployement Capacity”, la capacità di dispiegamento rapido, che consiste in dei moduli fino a un massimo di 5000 soldati da tutti i paesi membri sotto comando comune, e delle capacità e mezzi per dispiegarli, per esempio in scenari di risposta ad emergenza umanitaria o interventi militari di prevenzione. Chi segue questo dibattito sa che 5000 persone non sono nulla: siamo 1/100 della Nato Responce Force, che può contare su appunto 500.000 soldati.
Però, visto l’approccio strategico e l’impatto delle politiche della nuova amministrazione americana, bisogna essere coscienti che l’Ue ha una base solida per poter costruire eventualmente anche una risposta propria che abbia un valore aggiunto. L’Ue può contribuire per esempio a identificare le capacità militari in cui possiamo agire da catalizzatore per permettere agli Stati membri di aumentare le proprie capacità. Quindi non siamo ancora in una posizione di avere un’integrazione europea totale, ma di essere un elemento di facilitazione essenziale per gli stati membri. Diverse capacità essenziali sono già al di là della portata dei singoli Stati e per questo ci serve aggregare la domanda delle capacità di militari di cui abbiamo più bisogno a livello europeo. Pensiamo soprattutto alla difesa aerea e missilistica, le munizioni, i droni di nuova generazione e a lungo raggio, e i sistemi di difesa spaziale e Cyber.
Il secondo punto: per fare questo quali investimenti servono e soprattutto con chi farli?
Il punto in generale è fare valere al massimo ogni euro che spendiamo in questo ambito, quindi spendere meglio, spendere insieme e possibilmente spendere per la base economica europea. Durante il Consiglio europeo di giugno, la presente von der Leyen ha parlato del bisogno di investire 500 miliardi di euro nella difesa: un’asticella molto alta. Fino a settembre 2024, con gli ultimi dati aggregati, la spesa in difesa di suoi membri della UE era oltre 300 miliardi di euro: meno di un terzo, 92 miliardi, sono andati in investimenti; meno del 2% del totale in ricerca sviluppo. Di tutto questo solo il 18% è stato speso in maniera collaborativa tra Stati membri della Ue – contro un obiettivo minimo del 35%.
In questo contesto i paesi europei hanno fatto il 78% delle loro acquisizioni all’estero, e tra questi comprando il 63% di equipaggiamenti dagli Stati Uniti. Qui viene fuori un dilemma: se investiamo delle grandi quantità di denaro in questo ambito, i fondi devono essere solo per gli attori europei, o aperti ai partner esteri e in particolare gli Stati Uniti? La domanda è complessa, specie per un paese come l’Italia che ad esempio collabora allo sviluppo dei caccia di nuova generazione con Giappone e Regno Unito, mentre Francia, Germania e Spagna hanno mantenuto un perimetro di iniziativa e di ricerche europee. O se si prende il caso tedesco, per loro la questione dell’esclusività europea è complicata per la loro contraerea, dal momento che comprano la maggior parte dei loro sistemi dagli americani, mentre Italia e Francia hanno sviluppato un concorrente di fatto come iniziativa europea. Ecco, quello del perimetro degli investimenti resterà un punto spinoso dei negoziati di questi strumenti in Parlamento. Qui sarà importante trovare un buon equilibrio per garantire l’accesso alle tecnologie che ci servono, senza orientare i nostri veicoli finanziari principalmente verso l’industria di altri paesi.
Terzo punto: con quali soldi si fa? Ci sono diversi tracciati in esame. 19 Stati membri, fra cui l’Italia, hanno inviato una lettera congiunta per chiedere una leva più decisiva da parte della Banca Europea degli Investimenti. La BEI ha rimosso il vincolo del 50% per i cosiddetti investimenti dual use, civili e militari, per permettere una spesa maggiore, e ha aumentato la capacità di prestito nella difesa fino a 2 miliardi. Chiaramente questo non basta. La Presidente della Commissione ha confermato l’idea di attivare la cosiddetta escape clause del cd. Patto di Stabilità, che in soldoni permetterà alla Commissione di concedere delle deroghe che aumentano il periodo di correzione di bilancio per le spese di difesa; che limitano l’attivazione delle procedure di infrazione per deficit eccessivo; e che estendono la definizione di cosa vuol dire spendere in difesa – per esempio aggiungendo il personale o la manutenzione necessaria per equipaggiamenti, non soltanto il loro acquisto. Questo aumenterà di molto la flessibilità per le scelte di bilancio nazionali. Al livello europeo, questa è una rivoluzione se porterà anche a un dibattito sulla possibilità di includere una maggiore quota delle spese di difesa nel prossimo bilancio della Ue dal 2028 al 2034. Questo, in combinazione al dibattito sugli eurobond per la difesa, per cui molti paesi si esprimono adesso più vicino alla posizione italiana – l’hanno fatto paesi come la Danimarca o l’Estonia.
Sulle raccomandazioni a questa comunità parlerei fuori dal mio ruolo […].
Occorre rilanciare il discorso e l’ambizione sulla difesa europea con la consapevolezza che questo non significa abbandonare tutto il lavoro che facciamo con la diplomazia, la prevenzione dei conflitti o con i mezzi civili di risoluzione delle crisi. Ma è necessario non farsi illusioni sulle intenzioni di altre attori e prepararsi, purtroppo, a un futuro molto più complesso.
* Esperto in politica estera e sicurezza internazionale, attualmente Consigliere del Vice Segretario Generale per le questioni di pace, sicurezza e difesa, SEAE (servizio diplomatico UE)