Economia e conti pubblici: le scelte da fare in Italia e in Europa*
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Da molti anni l’Italia ha un grosso problema di crescita economica. Ma la propaganda governativa e un po’ di disattenzione potrebbero far credere che questo problema sia adesso stato risolto. Purtroppo non è così.
Dal 1991, primo anno per il quale sono disponibili senza troppe acrobazie statistiche i dati per tutti i paesi dell’Unione europea, ad oggi l’Italia è il paese UE con il più basso tasso di crescita: circa tre quarti di punto all’anno nella media del periodo. L’Italia è cresciuta perfino meno della Grecia, nonostante gli otto anni di recessione di questo paese. In media, l’Italia è cresciuta di circa un punto percentuale all’anno meno degli altri paesi della zona euro attuale.
Chi pensasse che un punto percentuale all’anno di crescita economica sia poca cosa dovrebbe tener conto di un certo numero di rapporti relativi. Nel 1991, il PIL della Germania riunificata era superiore a quello italiano del 50,3 per cento; nel 2023 questo rapporto è salito al 97 per cento, quasi il doppio. Per la Francia il rapporto è salito al 34,5 per cento da un quasi trascurabile due per cento del 1991. Il PIL della Spagna nel 1991 era pari al 46 per cento di quello italiano, ma nel 2023 aveva raggiunto un valore pari al 70 per cento di quello nostro. Oltre trenta anni di differenza di un punto all’anno nel tasso di crescita significano molto.
Ancora un dato che rafforza questo punto. Nel 1995 (Ameco, la banca dati della Commissione europea, non offre questo dato per periodi precedenti), il PIL medio pro capite italiano in parità di potere di acquisto era pari al 106 per cento della media dei 27 paesi dell’UE attuale, nel 2023 era pari al 93.9 per cento. Siamo passati da essere un paese più ricco della media europea ad un paese più povero rispetto a questa media.
Recentemente l’Istat ha rivisto i dati sul PIL degli ultimi dieci anni. La leggera revisione al rialzo ha mostrato che il PIL del 2023, in termini reali (ossia a prezzi costanti), ha superato di una inezia (un decimo di punto percentuale) quello del 2007. Anche l’Italia, ultimo tra i paesi europei, è riuscita quindi a ritrovare il livello di PIL precedente la grande crisi finanziaria del 2008/2009 (grafico 1). Ci si lamenta, giustamente, del basso livello dei salari italiani. Ma come potevano questi crescere di più se la somma di tutti i redditi prodotti nel nostro paese non è cresciuta affatto negli ultimi sedici anni?
Le ragioni per il bassissimo tasso di crescita italiano sono state analizzate mille volte. Quasi ogni economista italiano di nome ha pubblicato almeno un libro sulle ragioni della nostra bassa crescita. Tutte le organizzazioni economiche internazionali (OCSE, FMI, UE, ecc.) hanno fatto lo stesso. Il caso italiano è forse il caso di declino economico relativo più analizzato e meglio documentato. Le analisi coincidono in gran parte: il nostro paese ha accumulato una grossa serie di problemi strutturali che già negli anni novanta del secolo scorso lo hanno portato ad avere bassissimi tassi di crescita della produttività e del PIL. Le raccomandazioni che sono rivolte al nostro paese sono più o meno sempre le stesse.
Gli aiuti ai paesi più colpiti dalla crisi del Covid decisi dall’Unione europea (Next Generation EU con i Piani nazionali di Resilienza e Recupero, PNRR) sono stati strutturati per aiutare a fare le riforme che tutti sapevano dovessero essere fatte. L’obiettivo di queste riforme è quello di rafforzare il tasso di crescita potenziale a medio/lungo termine della nostra economia. Gli effetti di queste riforme si potranno vedere solo tra alcuni anni e non è ancora possibile dire nulla sul raggiungimento o meno dell’obiettivo finale. Quello di cui si può tener conto sono gli effetti della maggiore spesa sulla crescita economica. Questo ha portato la Commissione europea a rivedere le sue stime del tasso di crescita potenziale della nostra economia da valori attorno allo zero per il periodo dalla crisi finanziaria del 2008/2009 al 2021 a valori attorno ad un punto percentuale dal 2022 in poi.
Dal 2019 ad oggi l’Italia è cresciuta più o meno come gli altri paesi europei. La grossa eccezione è la Germania che non è cresciuta quasi per nulla (grafico n° 2).
Nei quattro anni e mezzo tra l’inizio del 2020 ed il secondo semestre del 2024, l’Unione europea è cresciuta in media del 1,03 per cento all’anno e l’Italia è cresciuta dello 0,94 per cento. Ogni affermazione su di una presunta crescita italiana superiore a quella del resto dell’Unione europea è, finora, senza fondamento alcuno. La Spagna è invece cresciuta in media dell’1,37 per cento nonostante sia stata il paese più colpito dalla recessione dovuta al Covid. La Germania è invece cresciuta in media di solo circa un decimo di punto all’anno.
Che l’Italia stia crescendo più o meno allo stesso ritmo degli altri paesi è, di per sé una buona notizia, quando si pensa ai ritardi degli ultimi decenni. Purtroppo questa crescita è stata ottenuta al prezzo di una quantità incredibile di nuovo debito. Nel 2020, tutti i, paesi hanno giustamente aumentato la loro spesa pubblica in disavanzo per contrastare la recessione provocata dal Covid. Ma negli anni successivi ci sono state differenze notevoli. Tra il 2021 e la fine del 2024 l’Italia avrà contratto nuovi debiti per circa 570 miliardi di euro (somma dei disavanzi annuali della pubblica amministrazione secondo le stime della Commissione europea). Questa cifra equivale ad un disavanzo medio annuo superiore a sette punti di PIL. La cifra equivalente per l’insieme degli altri 26 paesi dell’Unione europea è stata del 3,1 per cento del PIL.
È chiaro che il nostro paese non può continuare ad accumulare debiti in questa maniera; quest’anno avremo pagato interessi sul nostro debito pubblico per ben 86 miliardi di euro e, anche nei documenti ufficiali recenti del Ministero dell’Economia e della Finanza, questa spesa continuerà ad aumentare, anche in percentuale del PIL, fino ad avvicinarsi ai cinque punti di PIL nel 2040. Giusto per dare un paio di confronti, per l’istruzione la pubblica amministrazione italiana spende poco più del quattro per cento del PIL, mentre per la sanità spende poco più del sette per cento del PIL.
Parlando di crescita economica è opportuno fare un riferimento all’andamento dell’occupazione che, logicamente, dovrebbe svilupparsi in linea con la crescita reale meno la crescita della produttività del lavoro. Qui siamo di fronte ad uno sviluppo abbastanza sorprendente che riguarda tuti i paesi industrializzati. Durante il periodo della ripresa dopo la crisi del Covid, le imprese si sono rese conto che licenziare molte persone di fronte ad un calo della domanda per i loro prodotti e servizi poteva poi metterle in una situazione di difficoltà al momento della possibile ripresa di questa domanda. Tutte le imprese hanno quindi rivisto le loro politiche di reclutamento e cominciato a pensare che è utile avere dei lavoratori in riserva anche se questo non è immediatamente giustificato dai livelli di produzione. Questo spiega anche il fatto che questo aumento ha riguardato soprattutto i lavoratori assunti con un contratto a tempo indeterminato.
Eurostat raccoglie cifre sull’occupazione su base trimestrale dall’inizio del 2022. Le sue cifre mostrano che nel secondo trimestre del 2024 il livello di occupazione nell’Unione europea era superiore del 2.9 per cento a quello del primo trimestre 2022. Perfino in Germania, dove la crescita è stata del tutto assente, l’occupazione in questo periodo è aumentata del 2.8 per cento. Ma in Italia l’aumento è stato significativamente più forte di quello medio europeo: 3.9 per cento. Il risultato più interessante è stato però registrato in Spagna dove l’occupazione è cresciuta nello stesso periodo del 5.7 per cento.
Non si può comunque dimenticare che, nonostante questa recente crescita forte dell’occupazione in Italia e Spagna i tassi di occupazione di questi due paesi della fascia di età 15-74 sulla popolazione totale sono ancora molto bassi (grafico 3). C’è ancora tanta strada da fare.