Tecnologie contro le disuguaglianze, le politiche necessarie *
21 Ottobre 2024Il problema della crescita economica in Italia
31 Ottobre 2024di Giuseppe Pisauro, docente di Scienza delle Finanze, Sapienza Università di Roma, presidente Nens
Un punto di partenza ovvio per un ragionamento su economia e conti pubblici è la riforma delle regole di bilancio europee, approvate in primavera dopo un lungo percorso iniziato nel 2017 con una prima proposta della Commissione. Nel caso italiano, il Piano strutturale di bilancio (PSB) presentato a fine settembre è la prima applicazione delle nuove regole. La riforma ha portato novità positive. In particolare, prevedendo percorsi personalizzati per ogni paese (appunto i piani strutturali di bilancio) con enfasi sul medio termine e non più sul singolo anno. L’obiettivo è aumentare il grado di national ownership, di condivisione dei singoli paesi delle regole di bilancio. Questo aspetto era centrale nella proposta della Commissione ed è, tutto sommato, sopravvissuto nella versione finale approvata, sebbene questo giudizio vada qualificato alla luce delle clausole di salvaguardia (sul debito e sul disavanzo) di cui alle modifiche decise dal Consiglio europeo. Le due clausole reintroducono uno strato di regole uniformi (“minime”) che devono comunque essere rispettate da tutti i paesi. L’altro aspetto centrale della proposta della Commissione – semplicità e trasparenza delle regole – è invece venuto meno, a giudicare da questa prima applicazione. Resta infatti centrale il ruolo svolto da variabili non osservabili (prodotto potenziale, output gap, saldi strutturali) e, in generale, permane nella traduzione operativa del nuovo sistema un certo grado di tecnicismo velleitario (che si riscontra, appunto, nel ruolo cruciale mantenuto da variabili non osservabili e nella pretesa di valutare previsioni che si spingono al 2031).
Al di là delle questioni tecniche, pure importanti, il punto centrale riguarda le conseguenze che le nuove regole potranno avere sulla fiscal stance, l’intonazione della politica di bilancio, dell’area euro nel suo complesso. Le due clausole di salvaguardia che prima ricordavo introducono una tendenza implicita verso politiche restrittive, potenzialmente pro-cicliche. La clausola sul debito richiede una riduzione del rapporto tra debito pubblico e PIL di almeno un punto l’anno per i paesi con debito superiore al 90% e di almeno mezzo punto l’anno a quelli con debito inferiore al 90% ma superiore al 60%. Poiché oggi nel complesso dell’Eurozona il rapporto è al 90%, nei prossimi anni, la riduzione del debito sarà l’obiettivo prevalente della politica fiscale dell’area. Questa impostazione è incompatibile con gli obiettivi che l’Unione europea si è data. Transizioni energetica e digitale, difesa, per non parlare della tenuta del modello sociale europeo davanti alle dinamiche demografiche. Per di più si tratta in gran parte di questioni con un impatto importante sul benessere delle generazioni future, per le quali il ricorso al finanziamento con debito sarebbe pienamente giustificato anche in un’impostazione ortodossa. In questo quadro, scontando l’impossibilità delle politiche di bilancio nazionali di assolvere a questi compiti, anche in presenza di spazi di manovra a livello nazionale, l’unica via di uscita è la costruzione di una capacità fiscale centrale, che significa debito comune ma anche entrate proprie per servire quel debito. Una via d’uscita che presenta difficoltà politiche enormi ma alla quale non c’è alternativa.
Evidente il collegamento di questo ragionamento con il Rapporto Draghi sulla competitività dell’Europa. Il rapporto chiarisce che siamo di fronte a una sfida esistenziale per la UE. La diagnosi di un modello produttivo obsoleto da cui deriva una crescita della produttività insoddisfacente porta all’urgenza di aumentare gli investimenti per ridurre il divario che si è creato con Stati Uniti e Cina. Necessari investimenti pubblici massicci che facciano da volano agli investimenti privati.
Non è solo una questione di volume degli investimenti. Occorre il coordinamento delle politiche nazionali. L’esempio della spesa per la ricerca: la UE investe nel complesso, in rapporto al PIL, quanto gli Stati Uniti ma lo fa in modo frammentato (solo un decimo della spesa è a livello comunitario) e non si concentra nei settori che trainano l’innovazione. I tre maggiori investitori in R&S in Europa sono da vent’anni nel settore automobilistico. Era così anche negli Stati Uniti, dove all’inizio degli anni 2000 la spesa si concentrava nei settori dell’auto e della farmaceutica, mentre oggi si concentra nel settore delle tecnologie avanzate. La necessità di coordinamento e quindi di un modello di governance più adeguato conduce il rapporto a proporre il superamento del voto all’unanimità e l’estensione del voto a maggioranza qualificata. D’altro canto, si sottolinea la necessità di ridurre ostacoli regolatori: regole troppo strette a tutela della concorrenza impediscono la crescita delle imprese oltre la taglia critica che serve per ottenere economie di scala e guadagni di produttività.
Due incisi. Il primo è che non va dimenticato che le debolezze europee, ad esempio sulla crescita della produttività o la dimensione delle imprese, che il rapporto lamenta per tutta l’Europa si ritrovano in Italia su una dimensione peggiore. Il secondo, un’applicazione della questione del coordinamento a un tema di finanza pubblica non toccato dal rapporto. Come ci ricorda in un articolo recente (Sole 24 Ore) Franco Gallo, il coordinamento tra gli Stati e, in particolare, il superamento dell’unanimità sarebbero fondamentali per affrontare finalmente la questione della concorrenza fiscale dannosa. Un gioco a somma negativa, al quale molti partecipano: oltre a paesi come Lussemburgo, Olanda, Irlanda, Cipro che presentano caratteristiche da paradisi fiscali (sul tema segnalo il recente libro di Angelo Minguzzi, Europa parassita. Come i paradisi fiscali dell’Unione europea ci rendono tutti più poveri), anche l’Italia con l’imposta forfettaria (200.000 euro all’anno) sui miliardari residenti all’estero che, secondo analisi comparse sulla stampa in questi giorni, sembra suscitare molto interesse tra ricchi residenti nel Regno Unito timorosi di nuove misure del governo laburista.
Veniamo al PSB italiano. Il piano presentato arriva al 2029 (con un’estensione al 2031) ma di fatto sarà effettivamente vincolante fino al termine di questa legislatura, quindi solo per il triennio 2025-2027. Le nuove regole prevedono infatti che al cambio di governo si possa presentare un nuovo piano. La sostanza è chiara: bisogna ridurre il debito e il piano indica una strada ragionevole per farlo. E’ forse superfluo notare come la riduzione del debito sia per l’Italia una necessità, non tanto per le regole europee quanto per i riflessi sui mercati finanziari, in un contesto che sconta la cessazione del piano di acquisti di titoli pubblici della Banca centrale europea Gli obiettivi sul disavanzo sono ambiziosi: dal 7,2% del PIL nel 2023 già in discesa al 3,8% di quest’anno, si andrebbe sotto la soglia del 3% già nel 2026 per scendere al 2,6% nel 2027 (consentendo così l’uscita dell’Italia dalla procedura per disavanzo eccessivo) e all’1,8% nel 2029. Corrispondentemente, in tutto il periodo il saldo primario, che nel 2023 era ancora fortemente negativo, mostrerebbe un surplus (entrate maggiori della spesa al netto degli interessi) crescente in tutto il periodo. Sono obiettivi ambiziosi se li si confronta con quelli annunciati dalla Francia, anch’essa sotto procedura per disavanzo eccessivo, che prevede di scendere sotto la soglia del 3% solo nel 2029. Uno sforzo così importante come quello programmato dal governo italiano non sarebbe comunque sufficiente a garantire una discesa significativa del rapporto tra debito e PIL che, anzi, fino al 2027 crescerebbe per poi mettersi su un sentiero di diminuzione negli anni successivi ritornando nel 2029 al livello del 2023, a sua volta simile a quello pre-pandemia del 2019 (grazie alla revisione ISTAT dei dati di contabilità nazionale che ha rivisto al rialzo di 43 miliardi il PIL 2023). Di fatto, se tutto va bene, alla fine del periodo avremmo un rapporto tra debito e PIL in linea con quello di dieci anni prima. Insomma, data la necessità di contenere il debito, il percorso disegnato dal governo è un ragionevole punto di equilibrio con l’esigenza di non deprimere l’economia.
Ma la politica di bilancio non si esaurisce nel fissare l’obiettivo sui saldi, essa dovrebbe esprimere attraverso l’insieme delle misure che la compongono una direzione di marcia per il paese verso la correzione delle sue debolezze strutturali. Debolezze che sono le stesse che elenca il rapporto Draghi per l’Europa ma, come dicevo, si ritrovano in Italia con un grado di intensità più grave. Di ciò nel PSB non vi è traccia. Vediamo un po’ nel dettaglio.
Attraverso quali misure si raggiungeranno gli obiettivi della politica di bilancio? La revisione del PIL e l’andamento delle entrate (soprattutto imposte dirette) migliore del previsto ha determinato uno spazio fiscale rispetto agli obiettivi. La tendenza a legislazione vigente è, in altre parole, migliore degli obiettivi. C’è, quindi, uno spazio fiscale per nuove spese o tagli di imposte. Guardando al saldo, nel 2027 lo spazio è di oltre un punto di PIL (circa 24 miliardi). Tuttavia, lo spazio è in buona parte fittizio: dipende dal fatto che misure importanti introdotte nella scorsa legge di bilancio valevano solo per un anno. Nel piano si ribadisce l’intenzione di rifinanziare le misure in scadenza (cuneo fiscale, Irpef, contratti pubblici dipendenti, missioni di pace). Inoltre si vuole (giustamente) aumentare la spesa sanitaria e reperire nuove risorse per gli investimenti. L’insieme di questi interventi aggiuntivi, si afferma, andrebbe oltre lo spazio fiscale di cui sopra. Quindi, si conclude, “nella manovra di bilancio saranno necessarie misure ulteriori in termini di minori spese o di maggiori entrate”. Insomma, nonostante la mole (oltre 200 pagine) per ora del piano c’è solo l’indice. Il tema, per i prossimi tre anni non parliamo dei prossimi sette, è ancora da svolgere.
Sulle possibili fonti di copertura si è aperto una sorta di dramma. Dramma in buona parte determinato dal fatto che parlare di imposte è tabù, anche se si trattasse solo di redistribuire il carico fiscale abbassando un’imposta e alzandone un’altra. Bisogna abbassarle tutte per “non mettere le mani nelle tasche degli italiani”. Nella discussione pubblica da tempo si è perso completamente di vista il nesso tra imposte e ciò che esse finanziano. Come nota Chiara Saraceno (su la Stampa), costringere milioni di persone a rivolgersi alla sanità privata oppure a rinunciare alle cure non è forse “mettere le mani nelle tasche”? Come accade da tempo, il Ministro dell’economia pro tempore è chiamato a difendersi dall’accusa di voler aumentare la pressione fiscale. Che oggi è intorno al 42% del PIL lo stesso livello che aveva nel 2001 e che da allora non è mai cambiato. Ma rispetto al 2001 stiamo molto peggio. Perché l’affannosa ricerca di tagli di imposta ha prodotto la proliferazione di trattamenti speciali e la balcanizzazione del sistema tributario. In un gioco a somma zero: la pressione fiscale è rimasta sempre la stessa. Manca la volontà di affrontare la questione in modo razionale, vale a dire redistribuire l’onere dai fattori produttivi alle rendite e contrastare l’evasione. Il sistema tributario ha problemi di equità orizzontale evidenti a tutti e che le misure degli ultimi anni hanno peggiorato. Ma c’è, altrettanto importante, la questione dei riflessi sull’efficienza del sistema economico. Come si diceva, la questione della crescita della produttività è particolarmente seria in Italia. E il sistema tributario è un fattore negativo in questo senso. E’ distorsivo a favore del lavoro autonomo e disincentiva la crescita dimensionale delle imprese piccole (il forfettario fino a 80.000 euro di ricavi) non favorisce la capitalizzazione delle imprese (l’abolizione dell’ACE). La vicenda del concordato fiscale con annesso condono retroattivo è emblematica: aumenta la propensione ad evadere e mantiene un sussidio implicito per i settori più arretrati dell’economia (tollerare l’evasione equivale a un dazio protettivo per quei settori)
La casa e il catasto illustrano in modo plastico la bassa qualità della discussione. Un esempio con il quale posso concludere questo intervento. In questi giorni, si è parlato di rivalutazione delle rendite catastali per chi ha usufruito del superbonus e di case fantasma. Solo evocare questi temi ha portato alla reazione indignata “la (seconda) casa non si tocca”. Eppure si tratta di questioni che non richiedono nuovi interventi: la rivalutazione delle rendite in occasione di una ristrutturazione importante è già prevista da un Regio decreto del 1939, poi confermato da norme successive e, da ultimo, riguardo agli effetti del superbonus, dalla legge di bilancio dello scorso anno. Quello che nessuno ricorda, accanto allo slogan per cui “la casa non si tocca”, è che la spesa per i bonus edilizi del 2021-2023 equivale a undici anni di gettito dell’IMU. E a proposito delle case fantasma, come ricorda un articolo del Sole 24 Ore di qualche giorno fa, già si sa tutto: tra il 2007 e il 2010 le liste (oltre 2 milioni di unità) furono pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale. Da sottoscrivere la conclusione di quell’articolo: “il problema è che il vero fantasma è la volontà politica di fare in modo serio la lotta all’evasione immobiliare”.
* Intervento al convegno “Rilanciare l’economia, dare valore alle persone”