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Alla fine la sentenza è arrivata. Il 12 giugno 2024 la Commissione Europea ha stabilito che le batterie e auto elettriche in Cina beneficiano di massicci sussidi statali che rappresentano forme di concorrenza sleale, tanto da mettere in pericolo tutto il comparto Europeo. Secondo dunque una decisione ratificata il 4 luglio, ai tre grandi produttori di auto elettriche (“EV”) cinesi verranno applicati dazi come segue: 17,4% per i veicoli BYD, 19,9% per i Geely e 37,6% per i SAIV. Queste tariffe si sommano a una “flat tax” già in essere del 10%.
La decisione della Commissione è stata influenzata dalla predisposizione dei vari produttori a collaborare nel fornire informazioni, con tariffe più elevate per quelli che hanno collaborato meno in tal senso.
Ma riuscirà veramente questa misura a fermare l’incremento di quota di mercato che l’EV cinese sta registrando nel nostro mercato? Vi sono dinamiche complesse alla base, che richiedono iniziative più coraggiose da parte dell’Unione Europea.
Ad esempio, Il “Dragone” ha creato nel tempo un ecosistema ad-hoc per stimolare il comparto dell’elettrico del proprio paese, rendendolo una vera e propria scommessa nel processo di diversificazione della propria economia. E bisogna dargliene atto: il governo cinese è maestro nel veicolare le risorse verso i settori che intende fare crescere, a volte anche in maniera eccessiva – settore immobiliare (Evergrande) docet. Nel caso dell’elettrico, così come dei semiconduttori, ne risulta una dimostrazione di lungimiranza. Il risultato è stato che le vendite di EV Made in China rappresentano ad oggi più di metà delle vendite globali in un mercato che nel 2023 ha toccato un valore di $256 miliardi. In Europa, la quota di mercato delle stesse è risultato del 19% nel 2023, secondo stime di Rhodium Group, una percentuale destinata a crescere.
La ricetta? Un piano industriale chiamato NEV (“New Energy Vehicle”) Plan 2021-2035 volto a integrare le varie fasi di produzione attraverso un totale controllo delle catene di montaggio, partendo dalle nuove materie prime utilizzate e passando per le batterie, e garantire il successo finanziario delle imprese operanti nel settore. A onor del vero, l’inizio degli investimenti cinesi nel comparto risale già ai primi anni 2000, quando produttori di altri paesi puntavano su modelli ibridi, più vicini a quelli tradizionali che li avevano resi leader mondiali. Sulle catene di montaggio, Il governo Cinese ha favorito le imprese del paese nell’acquisizione di azionariati (spesso di maggioranza) in società o impianti di estrazione in tutte le geografie ricche di materie prime fondamentali per la fabbricazione delle batterie elettriche, quali Litio, Nickel, Cobalto e Grafite. In altre parole, la Cina controlla ad oggi gran parte delle risorse di materie prime necessarie per la produzione di batterie, riuscendo ad avere un importante controllo sui costi delle stesse. Ne è un esempio l’acquisizione nel 2021 da parte di Chengxin Lithium, un produttore di materiali per batterie al litio con sede in Cina, del 65% di un progetto di estrazione del Litio in Indonesia dal valore di $350 milioni. O l’acquisizione da parte della stessa società di Salta Exploraciones, compagnia di estrazione argentina, per $37,7 milioni. Imprese cinesi controllano oggi gran parte di società e impianti in America Latina, Sud-Est Asiatico e Africa. A questo si aggiungono imponenti incentivi nella fase di raffinazione di tali materie, di cui la Cina è protagonista indiscusso. Non è un caso che la International Energy Agency (IEA) prevede che nel 2030 il 57% della raffinazione del litio avverrà proprio in Cina.
Per i produttori di EV, invece, come emerge da uno studio del CSIS, il governo cinese ha offerto enormi sussidi per un totale di $230.8 miliardi fra il 2009 e il 2023. Questi sussidi hanno preso la forma di agevolazioni fiscali (come esenzioni fiscali su attività di ricerca e sviluppo), sovvenzioni (per infrastrutture), locazioni di terreni a prezzi calmierati, prestiti agevolati dai colossi bancari a controllo statale. A partire dal 2022, si è messo in atto un sistema più orientato al mercato sul principio del “dual credits”, che premia o penalizza i produttori in base alla quota di veicoli EV prodotti sul totale e che potrebbe ulteriormente stimolare i produttori locali, come già osservato fino ad ora.
Questo insieme di politiche fortemente espansionistiche ha fatto sì che il prezzo della produzione di batterie in Cina sia oggi circa il 30% inferiore rispetto a quello di Stati Uniti e 40% rispetto all’Europa (al netto degli incentivi). E di certo non a discapito della qualità, come testimonia il più recente sviluppo di nuove batterie LFP (litio-ferro-fosfato), un’evoluzione più performante in termini di sicurezza e durata rispetto alle più tradizionali batterie a ioni di litio, che dimostra una forte capacità innovativa di tutta la filiera in base a sviluppi esterni (e.s. geopolitici) e responso della base clienti. A questo, si aggiungono i costi di manodopera e di altre componenti, che ulteriormente possono elevare i benefici competitivi rispetto alle compagini USA o EU.
Dall’altra parte gli Stati Uniti hanno provato a reagire con l’Inflation Reduction Act (IRA), un atto legislativo approvato nel 2022 e concepito per decarbonizzare l’economia statunitense e ristabilire le catene di approvvigionamento, eliminando la dipendenza dalla Cina. È una misura che con l’Inflazione ha poco a che fare ed ha difatti suscitato le proteste dei paesi Europei – Macron la etichettò come una misura ingiusta e aggressiva nei confronti delle imprese europee. Si tratta di una legge dalle portate enormi, che punta ad iniettare nell’economia statunitense circa $800miliardi, di cui $370 miliardi di crediti d’imposta, prestiti agevolati o garanzie progettati per incentivare le imprese (anche europee) a portare avanti nuovi investimenti per lo sviluppo green in territorio americano, di cui circa $47 miliardi dedicati al comparto dell’EV. Non è un caso che, dall’approvazione dell’IRA, i principali produttori di batterie e veicoli elettrici hanno investito circa $115 miliardi nelle rispettive catene di montaggio, con la conseguente creazione di circa 100,000 posti di lavoro, il che ha contribuito a ridurre il gap con la Cina. L’IRA ha apportato un credito fiscale di $45 per KwH per batterie prodotte nel paese, il che ha ridotto i costi dei produttori di circa il 30% fino ad ora e mira a ridurli del 40% nel prossimo decennio.
In tale contesto, l’Europa arranca. Le imprese nostrane, come Stellantis, Volkswagen, Renault e Mercedes stanno ridimensionando i loro progetti di produzione in-house delle batterie. Questo perché se Cina prima e Stati Uniti poi stanno riuscendo a creare una domanda attraverso (principalmente) un’offerta economica e di qualità, lo stesso non avviene nel nostro continente. Ne è un esempio la recente notizia legata ad ACC (Automotive Cells Company SE), società francese di produzione di batterie per EV controllata da Stellantis e Mercedes, la quale ha annunciato la sospensione di progetti per la realizzazione di nuovi stabilimenti di batterie a in Germania e in Italia: mancano gli incentivi e manca la domanda per via di prezzi finali ancora fuori mercato. Si pensi che gli incentivi offerti dall’Unione fino ad ora nel comparto dell’elettrico ammontano a circa $10 miliardi, contando i fondi della BEI, una somma esigua se confrontata con quanto illustrato in precedenza.
Le politiche nazionali sono altresì del tutto insufficenti ad affrontare il ritardo con cui le imprese si sono affacciate al mondo dell’elettrico. Come scrive l’On. Peluffo nell’ultimo articolo Demo, la politica industriale italiana è risultata fino ad ora confusa ed inadatta. Stellantis, unico produttore del paese, è impantanato in una situazione di stallo in cui la produzione viene ridotta, vedasi i recenti licenziamenti nello stabilimento di Mirafiori, proprio perché le politiche rimangono vaghe e basate su un merito senza metodo.
Le tariffe imposte dall’UE non cambieranno dunque il corso delle cose. In primis, i produttori cinesi avranno ancora ampi vantaggi in termini di margini di profitto post-dazi. Ad esempio, BYD manterrà su molti modelli un margine di profitto di almeno il 15% considerando i nuovi dazi. I produttori cinesi avranno inoltre maggiori incentivi a localizzare la produzione in Europa, come in Ungheria, paese tra i più filo-cinesi dell’Unione, accentuando il dilemma creato dall’UE stessa: se il decreto secondo cui il classico motore a combustione dovrà uscire dalla produzione entro il 2035 a favore dei veicoli elettrici non verrà diluito nel tempo, i produttori cinesi potrebbero trovarsi ad avere ancora un vantaggio competitivo enorme in termini di capacità e costi di produzione, il che offrirà un seria occasione di assorbire ulteriori quote di mercato.
È dunque imperativo per l’Europa cambiare marcia attraverso un concetto semplice nell’ideazione ma complicato nell’attuazione: agire in maniera unitaria. Dobbiamo infatti avere l’ambizione a livello Europeo di riformare gli articoli 107-108 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFEU), che regolano la concessione di sussidi all’interno dell’Unione stessa. Ad oggi, sebbene esistano alcune forme di veicolazione diretta (e.g. BEI), gran parte dei sussidi alle imprese deve passare attraverso i singoli stati Membri; tale format, oltre a rallentare i processi, limita il corso di integrazione del comparto. Alcuni programmi a livello dell’UE, come l’European Regional Development Fund, forniscono finanziamenti diretti, ma si tratta di sovvenzioni competitive e spesso comportano cofinanziamenti da parte di autorità nazionali o regionali. In altre parole, se non avremo presto il coraggio di dire che la competenza di alcuni comparti in sofferenza debba spostarsi dai singoli paesi all’UE, non riusciremo a vincere la partita con gli altri giganti. Un modello del genere permetterebbe di competere con USA e Cina, consentendo di supportare le nostre imprese nel creare un ecosistema più trasparente e favorevole allo sviluppo. Una filiera gestita più centralmente aiuterebbe inoltre l’Europa a firmare accordi bilaterali più convenienti con i paesi che dispongono di materie prime, sviluppare il settore a livello locale e investire nella raffinazione e nella produzione di componenti, integrando quindi le catene di approvvigionamento.