LA SCUOLA AVAMPOSTO CIVILE DEL PAESE
25 Gennaio 2024Demo Libri
1 Febbraio 2024di Andrea Fodale
Con il decreto flussi 2023, il Governo Meloni ha stanziato un tetto a 136.000 unità per il numero di lavoratori non comunitari che potranno fare ingresso regolarmente in Italia nel 2024: 52.770 ingressi per lavoro subordinato non stagionale, 680 ingressi per lavoro autonomo e 82.550 ingressi per lavoro subordinato stagionale.
Secondo l’ISPI di Milano, saranno 608.000 le domande di lavoratori stranieri da parte di aziende nel 2024, un numero significativo che corrisponde a quasi 4.5 volte i posti stanziati.
Il risultato è una forte disparità fra l’offerta e la domanda di posti di lavoro. Si tratta di dati che tengono conto della qualità del lavoro in questione: gran parte di queste 608.000 domande, circa il 42%, riguarda lavori subordinati stagionali e il 14% riguarda lavori di assistenza familiare o socio-sanitaria.
Sebbene i lavoratori inclusi nelle categorie suddette non necessariamente rappresentino un vantaggio competitivo nel contesto dell’avanzamento tecnologico globale, sicuramente possono incidere su un aspetto, ossia un aumento del gettito fiscale.
Pensioni e impatto immigrazione
L’invecchiamento della popolazione è ormai problema noto. Si stima che entro il 2050 vi sarà in Italia un pensionato ogni lavoratore. Questo trend strutturale inciderà sempre di più sulle finanze pubbliche, e renderà le politiche di welfare previdenziale sempre meno sostenibili nel lungo termine.
Come indicato dai dati INPS, se alla fine del 2022 risultano essere oltre 16 milioni i percettori di reddito pensionistico, ossia un dato stabile a confronto con il quinquennio precedente, la spesa pensionistica dello Stato è risultata in costante aumento dal 2017 al 2022, raggiungendo la quota dei €322.2 miliardi. Questo rappresenta un alto 16.5% del PIL, il secondo peggior dato a livello europeo (media al 12.9%).
Tuttavia, a contribuire è stato nel tempo anche un aumento dell’importo medio mensile delle pensioni, quantomeno in valori assoluti. Si stima che, al contrario delle aspettative, un pensionato italiano riceva una pensione più alta rispetto ai pensionati di altri paesi se ci si basa sul Purchasing Power Standard (ossia tenendo in considerazione il costo della vita di ogni paese).
Considerando adesso il lavoro della popolazione immigrata, ci baseremo sui dati della Fondazione Leone Moressa, che da oltre 10 anni si occupa dello studio dell’economia di Immigrazione in Italia:
- Contributo Demografico: gli immigrati risultano avere un’età media di 35 anni, contro i 46 anni della popolazione italiana
- Impatto fiscale: nel 2023, gli immigrati hanno dichiarato un reddito complessivo di €64 miliardi, risultante in un versato di circa €10 miliardi. Il gettito fiscale netto risulta anch’esso positivo con quasi €2 miliardi, ed è dovuto ad entrate fiscali superiori alle spese di welfare per lo stesso gruppo di individui. Gli immigrati, infatti, hanno un costo welfare molto inferiore a quello degli italiani, in quanto usufruiscono molto meno di servizi pubblici e, data l’età media, previdenziali.
I dati sopra menzionati riguardano una popolazione di 5 milioni di immigrati, che ad oggi appresentano una parte principalmente non-qualificata e di basso reddito pro-capite della popolazione.
Un primo bilancio
Attraverso calcoli molto semplicistici, potremmo concludere che, ferme restando tutte le altre condizioni, ogni immigrato potrebbe apportare un beneficio di circa €2,500 alle casse dello Stato italiano. Definiremo questa misura come il beneficio marginale dell’immigrazione (o “BMI”).
Tuttavia, pur essendo un dato positivo, il BMI risulta essere modesto e potenzialmente non sufficiente a giustificare un aumento importante degli ingressi.
Vi è dunque un secondo punto da menzionare. Ossia che l’aumento di posti per immigrati deve essere oculatamente gestito fra le diverse categorie di impiego. Non si tratta dunque di una regolarizzazione dei migranti che entrano in maniera irregolare nel nostro paese, ma di una politica strutturata. Una buona quota dei permessi dovrebbe essere destinata a occupazioni più qualificate e dunque maggiormente remunerate. Questo fattore non deve essere discriminatorio, quanto uno che abbia due importanti riscontri: (1) un gettito fiscale maggiore e (2) un apporto di conoscenze che possa contribuire allo sviluppo tech del nostro paese. Quest’ultimo è un fattore molto importante che avrà un effetto moltiplicativo sul suddetto BMI, rendendo il beneficio ancora maggiore.
Il Caso Portoghese
Il Portogallo è storicamente uno dei paesi più aperti in termini di immigrazione nel contesto europeo. Secondo un rapporto della Commissione Europea, dall’inizio di questo decennio, quasi mezzo milione di persone ha acquisito la cittadinanza portoghese. Per favorire l’inclusione degli immigrati, il Portogallo segue un Piano Strategico per la migrazione che pone l’accento sul rafforzamento della qualità dei servizi forniti agli stranieri, prevedendo di rispondere alle sfide dell’integrazione in modo trasversale.
In virtù di questo, una cosa salta all’occhio.
Nello scorso novembre, l’agenzia di rating Moody’s confermò il rating dell’Italia alzando l’outlook da negativo a stabile. Negli stessi giorni l’agenzia alzò allo stesso modo il rating sovrano portoghese ad A3 da Baa2. Una valutazione ora nettamente superiore a quella del rating sovrano italiano. Tuttavia, le motivazioni di fondo furono del tutto diverse:
- Da una parte, per l’Italia vi era, fra gli altri, la possibilità di poter contare sui fondi del PNRR, ottenuti in sede Europea dal governo Conte 2, e la solidità del sistema bancario, vituperato dalla manovra, alla fine non varata, della tassa sugli extraprofitti.
- Dall’altra, per il Portogallo vi era la possibilità di poter contare su politiche strategiche di lungo raggio. Fra queste, l’agenzia menzionava una immigrazione netta positiva, in grado di sostenere gli effetti economici dati dall’invecchiamento della popolazione sulle casse dello stato. Questo, combinato con un aumento della produttività per individuo, sta contribuendo a una costante diminuzione del debito pubblico in rapporto al PIL
Dati alla mano, l’immigrazione inclusiva del Portogallo ha portato a dei risultati veramente importanti. Secondo il “Portuguese Migration Observatory”, infatti, nel 2022, gli stranieri hanno contribuito per circa €1.9 miliardi di euro alla previdenza sociale e hanno beneficiato solo di circa €257 milioni, un bilancio dunque estremamente positivo e in miglioramento rispetto alle serie storiche.
Simile a quanto osservato in Italia, si è constatato come gli immigrati in Portogallo utilizzino in maniera assolutamente minima i servizi pubblici offerti dallo Stato, incluso i servizi sanitari, proprio in virtù della loro età mediamente più bassa rispetto a quella della popolazione portoghese.
Una politica strutturata
Il Portogallo è solo uno dei casi da citare. Potremmo fare l’esempio del Canada, che sta beneficiando delle politiche immigratorie in maniera simile. Il discorso dovrebbe essere ulteriormente ampliato, ma ci limiteremo a dire che politiche immigratorie più ampie e oculate sarebbero necessarie al nostro paese per combattere il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione e il conseguente aumento della spesa previdenziale per gli anziani, un problema sempre più rilevante per il nostro paese. Tuttavia, una nuova e attenta politica immigratoria deve basarsi su due livelli.
Il primo, un semplice aumento dei permessi di lavoro, che porterebbe un flusso principalmente di persone non altamente qualificate nel nostro paese. Tra queste, vi dovrebbe essere una maggiore regolarizzazione dei migranti con processi di integrazione ben definiti, anche al fine di contrastare il fenomeno del caporalato e di sottrare questi individui a realtà criminali.
Il secondo richiede di favorire l’influsso di competenze in Italia. Per fare ciò si deve pensare a una politica ampia e strutturata. Da un lato, l’Italia ha bisogno di appoggiare le università nell’attrarre studenti stranieri da formare e trattenere in Italia. Questo comporta il finanziamento di una strategia che implica:
- Un ammodernamento e ampliamento dei corsi di studio fra gli atenei, aumentando i corsi in inglese dal 17% al 40/50% del totale, in particolare per gli indirizzi economici e STEM, anche assumendo personale docente estero per favorire questo processo e migliorare la qualità di questi corsi
- Un programma di visti lavorativi agevolato per studenti provenienti dall’estero, finalizzato alla conversione in cittadinanza in seguito a un periodo lavorativo in Italia
- Un efficientamento della comunicazione degli atenei. Le Università devono poter usufruire di fondi per promuovere i propri corsi all’estero fra scuole, università, giornali, etc.
Dall’altro lato, si ha la necessità di attrarre lavoratori esteri da immettere subito nel mondo del lavoro. Dunque, bisognerebbe lavorare su un piano che superi il rilassamento di politiche immigratorie volte a persone con determinate qualifiche e titoli di studio. Si ha qui la necessità, ad esempio, di introdurre nuovi visti e/o residenze permanenti in modo semplificato per persone qualificate; proporre incentivi finanziari (esempio, tax breaks) per personale con competenze in settori dove si identifichino specifiche carenze; investire in hub di aziende high-tech dove individui possano portare idee imprenditoriali dall’estero eventualmente favoriti da sussidi statali.
Questo permetterebbe al mercato del lavoro di diventare, in primis, più competitivo grazie all’immigrazione, spingendo a una progressione naturale verso una tendenza al rialzo dei salari. In secondo luogo, l’integrazione di competenze, talenti e prospettive diversificate favorirebbe un ambiente in cui prosperano il merito e l’innovazione, a vantaggio, in ultima analisi, dell’intera forza lavoro. Il suddetto BMI, dunque, aumenterebbe in maniera progressiva, creando un processo che a sua volta si auto-alimenta nel lungo termine.