Disuguaglianza: il potere al servizio di pochi
24 Gennaio 2024IMMIGRAZIONE, PERCHÉ OCCORRE UNA POLITICA STRUTTURATA
31 Gennaio 2024-Autore: Ivano Dionigi-
Lectio magistralis del professor Ivano Dionigi tenuta nell’Aula dei Gruppi Parlamentari della Camera dei Deputati il 23 gennaio in occasione della cerimonia di presentazione del Rapporto 2023 dell’Associazione italiadecide intitolato: “La conoscenza nel tempo della complessità. Educazione e formazione nelle democrazie del XXI secolo”. Si ringrazia la presidente di Italiadecide Anna Finocchiaro per aver permesso questa riproduzione digitale.
Un’epoca di squilibri
«Guardai, ma non c’era nessuno, tra costoro proprio nessuno capace di consigliare, nessuno da interrogare per avere risposta».
Le parole del profeta Isaia (41, 28) sembrano interpretare lo spaesamento dei nostri giorni.
In evidente affanno le istituzioni educative e le forme tradizionali di socialità: smarrita la famiglia, con la dissoluzione della sua identità classica; sempre più marginale la Chiesa nello scandire le tappe interiori dell’adolescenza; in caduta libera la credibilità dei partiti. Le grandi visioni socialista, liberale, cristiano-cattolica, che hanno presieduto alla formazione della prima Europa e alla scrittura della nostra inarrivabile Costituzione, si stanno eclissando; lo stesso concetto di democrazia sconta metamorfosi e contraddizioni impensate. La complessità manifesta il volto dello squilibrio, di molteplici squilibri: quello sociale dell’immigrazione, ambientale del pianeta, sanitario della pandemia, politico della guerra, demografico della denatalità. Disorientati da una tecnica, che da ancella diventa signora della scienza, e orfani di una parola che, trasmigrata in territori sempre più smaterializzati e dematerializzati, patisce il suo divorzio dalla cosa, non sappiamo più comunicare, vale a dire condividere (cum) con gli altri il compito (munus) della vita.
Il mondo sta male, cantava Enzo Jannacci. Avvertiamo che il vecchio mondo sta tramontando e quello nuovo non sorge ancora, e in questo interregno, come allertava Antonio Gramsci, si verificano i fenomeni morbosi più svariati, che sfuggono anche alle antenne dell’informazione, sintonizzate sullo spettacolo più che sulla ferocia di quest’epoca. Nel frattempo, incapaci di utopia, preferiamo ancorare le nostre speranze al passato.
La scuola
Ma non c’è proprio nessuno da interrogare e capace di consigliare?
C’è un’istituzione sulla quale confidare: la scuola. Dove, direbbe Montaigne, si formano teste ben fatte e non tesdte ben piene; dove, direbbe Nietzsche, si formano cittadini e non utili impiegati; dove, ha detto Piero Calamandrei, si forma la classe dirigente del Paese. Per questo la scuola è più importante del Parlamento, della Magistratura, della Corte costituzionale.
Quale scuola? Non certo quella della didattica a distanza, la prima vittima della pandemia: posposta alle messe in piega, con i ragazzi addomesticati e oscillanti tra il pigiama, il divano e lo smartphone, spettatori e non protagonisti dell’apocalisse. E neppure quella prima della pandemia, improntata alla separazione sia dei saperi sia delle classi sociali. Bensì una scuola aperta ventiquattro ore: lezioni, compiti, musica, teatro, sport, otium negotium, cella e pulpito, perché la
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scuola non è né dei professori né delle famiglie, ma degli studenti. Una scuola intesa come esperienza non dell’aut aut ma dell’et et, dove coabitino scienze applicate e latino, informatica e storia dell’arte, inglese e filosofia; vissuta come forma e forza di giustizia sociale, che prevenga dispersioni e fallimenti precoci; praticata come palestra dei fondamentali del sapere che, al riparo da pedagogie facilitatrici, non si rassegni, per una malintesa idea di democrazia e di egualitarismo, a rendere deboli i saperi anziché forti gli allievi, i quali per la vita necessitano di «scarponi chiodati» (Osip Mandel’štàm).
Una scuola dove i professori (profiteri) non siano declassati a burocrati e umiliati a capoclasse ma, riconosciuti economicamente e socialmente, possano professare a pieno titolo l’affascinare (delectare), l’insegnare (docere), il mobilitare le coscienze (movere), come aruspici di quella cosa tremenda e stupenda che si chiama la vita dei giovani, che Erasmo considerava «il bene più prezioso della città».
In questa direzione ci soccorrono e ci confortano due buone notizie: nonostante il progressivo indebolimento formativo, aggravato dalla persistente e inguaribile affezione ministeriale della ‘riformite’, abbiamo ancora le migliori scuole d’Europa, e risibile è il confronto con quelle d’Oltreoceano; inoltre, sono le nostre ragazze e i nostri ragazzi che dal profondo Sud all’estremo Nord, scontando le stesse contraddizioni e coltivando le stesse aspirazioni, fanno la bellezza, la speranza e l’unità del nostro Paese, diviso e sfigurato dalla rappresentazione della politica, dalla disuguaglianza delle condizioni economiche, dal cinismo degli adulti. Un Paese benedettamente ricco di talenti e maledettamente incurante di essi, che sarà migliore il giorno in cui non diremo più di un ragazzo e di una ragazza «è tutto suo padre, tutta sua madre», ma di un genitore diremo «è tutto suo figlio, è tutto sua figlia».
Ma – si obietterà – non è compito nuovo e urgente della scuola e, più in generale dell’università e delle istituzioni formative, trasferire alla società competenze e conoscenze di utilità immediata, come sollecitano aziende, mercato, bandi europei, ranking internazionali, e come invocano le stesse sorti economiche e occupazionali del nostro Paese affetto da un cronico deficit di cultura tecnica e scientifica?
Queste sono finalità secondarie ed effetti collaterali, non la ragione prima e fondativa. A chi sostiene che al mondo dell’educazione spetta insegnare un mestiere, ha già risposto il Rettore di Harvard Derek Bok, al quale si deve l’amara e fulminante sentenza «Se pensate che l’istruzione sia costosa, provate con l’ignoranza». In una lettera agli studenti, ormai trent’anni fa, scriveva: «Se pensate di venire in questa università ad acquisire specializzazioni in cambio di un futuro migliore state perdendo il vostro tempo. Noi non siamo capaci di prepararvi per quel lavoro che quasi certamente non esisterà più intorno a voi. Ormai il lavoro, a causa dei cambiamenti strutturali, organizzativi e tecnologici è soggetto a variazioni rapide e radicali. Noi possiamo solo insegnarvi a diventare capaci di imparare, perché dovrete reimparare continuamente».
Come trasmettere la capacità di imparare? Fronteggiare la saturazione e le spire del presente? Garantire una coscienza linguistica, morale, politica? Formare persone egregie e non gregarie, vale a dire intelligenze libere e capaci di porre limiti e ribellarsi a macchine più o meno intelligenti? Tutelarci dal diventare un giorno «scienziati senza conoscenza, magistrati senza giurisdizione e buffoni senza commedia» (Montaigne)?
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I fondamenti del sapere
Tre voci andrebbero scolpite all’ingresso delle nostre scuole, università e istituzioni formative: interrogare, intelligere, invenire.
Compito della scuola è abitare le domande, nella consapevolezza che l’ars interrogandi è più importante e decisiva dell’ars respondendi. Il domandare non è forse «la pietà del pensiero» (Heidegger)? Dove sono finiti i perché interrogativi? Siamo sempre più circuìti e assediati da improvvisati venditori di interessati perché causali. La scuola è il luogo naturale dove non solo conoscere l’origine, la storia e il futuro dei diversi saperi ma anche prendere coscienza delle sorti del mondo. Se è vero che conosciamo poco più del 5% dell’universo, se noi occidentali siamo poco più di un miliardo rispetto ai restanti otto, se abbiamo sfigurato il nostro habitat oltre il sopportabile, non sarà arrivato il momento di porre un freno alla nostra arroganza e di interrogarci sulla perdita della nostra centralità nel mondo, da un lato allarmati dal grido della natura che vuole essere libera e non più vexata, dall’altro spodestati dalle stesse macchine che abbiamo costruito? La scuola è anche il luogo dove orientarci sulle domande penultime e ultime: il nostro posto nel mondo, il nostro disegno di vita, il nostro rapporto con la comunità, la nostra identità personale. Dove un giovane possa rispondere alla domanda, che Socrate pose un giorno a Gorgia e che Agostino poneva quotidianamente a se stesso, «Tu chi sei? (Tu quis es?)»; e chiedersi «dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo? dov’è la sapienza che abbiamo perduto nella conoscenza? dov’è la conoscenza che abbiamo perduto nell’informazione? (T. S. Eliot)».
Quanto alla seconda voce, già Spinoza ammoniva che di fronte alle vicende umane «non c’è né da ridere né piangere né da imprecare, ma da capire»: intelligere, vale a dire cogliere (legere) “il dentro” (intus) e “la relazione” (inter) delle cose; recuperare la profondità, la verticalità, la metamorfosi della dimensione del tempo, oggi messo all’angolo e mortificato dalla grande rete dello spazio, che privilegia la linearità, la superficie, l’orizzontalità. Abbiamo bisogno di fare pace col tempo e di risarcire i giovani, ai quali abbiamo staccato la spina della storia confinandoli in un eterno presente. Non è tollerabile essere giganti e planetari nel web e nello spazio, e nani e provinciali nel tempo. Di qui la necessità e l’urgenza di ricondurre i saperi specialistici e iperspecialistici alla visione dell’insieme, all’arte della sintesi, alla scienza dell’intero: chi non mette in relazione le parti e i frammenti col tutto dice mezze verità, e quindi menzogne. Abbiamo bisogno dello sguardo sinottico della filosofia (philósophos synoptikós), materia emarginata, al pari della storia, nel piano degli studi ma più utile e più concreta dell’ingegneria gestionale e della tecnica delle costruzioni, perché parla di noi e a noi. Del resto, il titolo di PhD non significa philosophiae doctor, “esperto di filosofia”? Né si dà intelligere senza la relazione con le culture altre: una sfida impegnativa e decisiva affrontabile non erigendo muri fisici o mentali ma compiendo una sorta di Pentecoste laica, che ci consenta di capirci tutti restando ciascuno fedele alla propria lingua; analogamente a quanto accadde nel giorno natale della Chiesa, quando per un miracolo traduttivo Giudei e Gentili, convenuti da ogni parte, esterrefatti comprendevano nelle proprie lingue le parole degli apostoli.
Da ultimo, invenire, “scoprire”, nel duplice significato di “inventare il novum”, il mai visto, il mai udito, il mai sperimentato verso cui orientarci; e di “ritrovare il notum”, la storia, il passato, la memoria che abbiamo rimosso.
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Fin troppo evidenti appaiono la cesura e censura del notum a fronte della prevalenza e invadenza del novum delle tecnologie digitali che plasmano la nostra vita e che celebrano quotidianamente i loro trionfi in una sorta di perenne spedizione argonautica.
Paese paradossale e squilibrato il nostro. Fino agli Anni Sessanta tutto proiettato verso la cultura umanistica, con conseguente e vistoso deficit di cultura scientifica e tecnologica, dimentico dell’art. 9 della Costituzione. Ora, in febbrile adorazione del monoteismo tecnologico, rimuove gli studi umanistici, in particolare classici, ritenendoli conservatori e inutili. Perdura, in tal modo, a giudizi invertiti, la sciagurata e anacronistica frattura tra le “due culture”.
Benvenuta tecnologia: forma avanzata di conoscenza e parola mirabile, composta da téchne, tecnica (l’ars latina), e lógos, “il pensiero che abita la parola”; e benvenuto il suo profeta Prometeo, che si erige a signore del tempo presente e soprattutto di quello a venire, esplicitando tutta la potenza e potenzialità del suo étimo: Prometeo, colui che “comprende (mêtis) prima (pro)”, “il lungimirante”. Chiaro e univoco il suo linguaggio: adotta il paradigma sostitutivo della dimenticanza, interviene sulla vita intesa come biologia (zoé), sa di sapere, dà risposte immediate, segue l’opinione comune (dóxa) e favorisce il pensiero dominante, si iscrive nello spazio, individua i mezzi più efficaci, semplifica la complessità, conosce i linguaggi specialistici, familiarizza con le non-cose. Violando i cardini della natura, Prometeo profila l’uomo non più quale deve essere, ma quale vuole diventare: l’homo creator.
Stiamo formano uno studente intero, un cittadino intero, un uomo intero, oppure dimidiato? Che ne è dell’istanza di Ippocrate, il quale teorizzava che là dove c’è philotechnía, la cura della tecnica, c’è anche philanthropía, la cura dell’uomo? Della prospettiva di Platone, il quale subordinava la tecnica (demiourgikè téchne) alla politica (politikè téchne), il faber al civis? Lezione, questa, in verità ormai lontana: ai nostri giorni la politica, ridotta a scala locale, si deve confrontare con la tecnica e con l’economia che sono globali; avremmo bisogno di un governo mondiale e di uno ius mundi e invece siamo qui a babettare su ius soli e ius culturae. Nani sulle spalle dei nani, ci precludiamo qualunque vista.
A Prometeo, profeta della tecnica e del novum, dobbiamo affiancare Socrate, il profeta dell’umanesimo e del notum: l’inventore del dia-logo, il professionista dell’ignoranza («so di non sapere»), lo stalker interrogante. Amico del tempo e apostolo di quel pensiero che rimanda alla memoria dei padri e alla lezione della storia, egli adotta il paradigma cumulativo della memoria, concepisce la vita come esistenza individuale (bíos), segue il pensiero scientificamente fondato (epistéme), scruta i fini, interpreta la complessità, conosce il linguaggio comune della pólis. Controcorrente, eretico, fuori posto (átopos per Platone) e universale (kósmios per Plutarco), Socrate è colui che «per primo ha richiamato a gran voce la filosofia dal cielo (devocavit e caelo), l’ha trasferita nelle città, introdotta nelle case e portata a interessarsi della vita, dei costumi, del bene e del male» (Cicerone, Tuscolane 5, 10).
I tempi spiegano Prometeo, ma Socrate spiega i tempi. È il linguaggio umanistico la struttura dura, l’hardware che fa girare i programmi dei linguaggi specifici. Tutto il resto è software.
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La grande occasione
A chi, se non alla scuola, affidare il compito severo e nobile di queste sfide? Quale altra istituzione può oggi assicurare una tale polizza culturale e civile?
Scuola deriva da scholé, parola greca che indica il tempo che il cittadino riservava alla propria formazione (paidéia): non frammentata né monoculturale, che vorrebbe ridurre e confinare a disciplina specifica la stessa educazione sentimentale, bensì integrale e completa, modellata sul cerchio (enkýklios), la forma geometrica perfetta. E la lingua non mente.
La scuola non stampa moneta, non crea lavoro, non garantisce felicità, ma si pone come il luogo legittimato a formare cittadini digitali consapevoli come in passato ha educato i cittadini agricoli, i cittadini industriali, i cittadini elettronici. A sfidare l’hic et nunc del linguaggio scientifico e tecnologico con l’ubique et semper del linguaggio umanistico. A configurare «un muratore che sa di latino», secondo la definizione dell’architetto formulata da Adolf Loos, «l’ingegnere rinascimentale» secondo la definizione dell’intellettuale moderno cara a Steve Jobs: colui che sa «unire i puntini guardando avanti e indietro». A tendere il filo che lega il destino dei viventi alla memoria dei trapassati e al progetto per i nascituri, nella consapevolezza che il presente non basta. A iscrivere le nuove domande nell’orizzonte dei fini, del tempo, dei giorni a venire, oltre le categorie povere e impoverenti dei mezzi, dello spazio, del presente. A rendere consapevoli che la crisi è economica perché è politica ed è politica perché è culturale e morale. A creare parole nuove per nominare questo presente inaudito, perché «tutte le parole sono logore e l’uomo non può più usarle» (Qoelet 1, 8). A imparare – come i cittadini della Repubblica di Platone – che insieme si gioisce e insieme si soffre, perché felicità e dolore sono esperienze comunitarie e non private. A stipulare – oltre quella culturale tra i diversi linguaggi del sapere – l’alleanza generazionale tra adulti e giovani, docenti e discenti, padri e figli.
Davvero una grande occasione, perché assieme all’università, la scuola è fra i pochi luoghi, se non l’unico in cui «le persone si incontrano ancora a faccia a faccia, in cui giovani e studiosi possono capire quanto il progresso del sapere abbia bisogno di identità umane reali, e non virtuali» (Umberto Eco). Noi alla loro età – col futuro assicurato e col vento alle spalle – i fratelli maggiori, i padri, i maestri li abbiamo contestati e rimossi con un antagonismo non privo di durezze, deviazioni, fallimenti di cui abbiamo a lungo portato addosso le ustioni; loro – col futuro incerto e col vento in faccia – li cercano e spesso non li trovano. Se non avvertiamo questa loro chiamata, li condanniamo a una lenta, silenziosa, irreversibile secessione.
Ivano Dionigi,
Professore Emerito dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, di cui è stato Magnifico Rettore